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Intervista a Francesco Dillon

Nel mese di novembre prende l’avvio il nuovo Corso di Perfezionamento di violoncello affidato a Francesco Dillon e Paolo Bonomini.
Francesco vive a Firenze, e così lo abbiamo incontrato in un caffè del centro: è stata l’occasione per una conversazione piacevolissima, che ha delineato la sua maniera originale di abitare la musica, con curiosità insaziabile ed esigente nei confronti del nuovo, ricerca di una via rigorosa e insieme libera nell’interpretazione della musica del passato.
Le ricche e multiformi esperienze di Dillon come solista, camerista, esploratore del repertorio contemporaneo, organizzatore e insegnante sono legate anche all’esperienza fiesolana, perciò è da lì che siamo partiti.

 

Fra qualche settimana inizia il nuovo corso di perfezionamento, ma tu hai già una lunga storia di docente presso la Scuola… Quando hai iniziato a insegnare a Fiesole?
Nel ‘95, pochissimo tempo dopo il diploma e il “giorno dopo” aver finito di frequentare l’Orchestra Giovanile Italiana. Piero Farulli mi catturò con i suoi meravigliosi modi, che non lasciavano alternative. Non venivi messo di fronte ad una scelta: si trattava semplicemente di un onore. Si formò una nuova classe e mi ritrovai con allievi che avevano dai 10 ai 20 anni, ovvero anche tre, quattro anni meno di me.
Ho dovuto velocemente compiere un processo di comprensione dei gesti, ormai quasi spontanei, che facevo suonando: un passaggio che si è rivelato davvero fondamentale per poter insegnare.

Il tuo percorso era stato disordinato?
Non direi proprio: semmai ricco di stimoli. Il passo cruciale fu l’incontro con Andrea Nannoni, al terzo anno di Conservatorio. Da lì in poi il mio percorso di formazione è stato molto lineare ed efficace. Nannoni mi aveva anche indirizzato alla frequenza dell’OGI, e così il mio approdo di studente a Fiesole è stato come una fioritura di ispirazione artistica, mentre il conservatorio era stato il periodo della formazione, particolarmente ricco grazie a docenti come Nannoni per il violoncello, Salvatore Sciarrino per la composizione e Romano Pezzati per la lettura della partitura.

Stavi dicendo però che comunque hai dovuto lavorare su te stesso
Diciamo che era inevitabile: per spiegare certe cose devi averne prima una piena consapevolezza razionale. È stato come riavvolgere il nastro, smontare e radiografare quello che sapevo per trasmetterlo agli allievi. Gli aspetti principali del lavoro sull’arco, che Andrea Nannoni mi aveva insegnato con grande cura, dovevo adesso ripensarli per spiegarli agli allievi. Avevo una naturalezza nel suonare che mi aveva agevolato nell’apprendere, ma trovandomi a trasferire quei concetti su ragazzi con corpi, mani e menti diverse, ho dovuto veicolare le mie conoscenze a comporre un percorso personalizzato per ognuno di loro. Insomma, si è trattato di un insegnamento che aveva al contempo le caratteristiche dell’apprendistato, e che è proseguito fino al 2007.

Quando hai deciso di lasciare la Scuola
Insegnavo già da più di dieci anni, ed in quello stadio della mia vita mi sono sembrati molti. Il pericolo che volevo evitare era la “comodità”, una parola che secondo me con il far musica non deve mai avere a che fare! Questo comfort di un insegnamento settimanale – facendo in realtà i salti mortali per essere puntuale – rischiava di diventare una tranquilla routine.
Nel frattempo si stava creando una contraddizione: a 22 anni avevo aderito in pieno all’ideale fiesolano che riunisce amatori e giovani professionisti, una cosa rivoluzionaria che è tra i fattori che rendono speciale la Scuola. Negli anni però la mia classe era passata dalla tipica composizione variegata ad essere qualcos’altro: avevo intanto fatto il mio cammino, e dieci anni dopo capitava che ci fossero allievi già diplomati, che magari venivano dall’estero, in una classe dove due o tre ragazzini studiavano senza troppa convinzione. Intanto il mio studio personale era sempre maggiormente focalizzato sui dettagli, su cose ricche e complesse che desideravo poter condividere con gli allievi.
Così ho rinunciato alla mia classe alla Scuola, ma in realtà non ho mai lasciato l’insegnamento, nei corsi estivi e in sempre più numerose masterclass in Italia e all’estero, di violoncello e di musica da camera.

Intanto sono successe tante cose, che ti rendono un artista particolarmente poliedrico e curioso. Anche da bambino andavi a caccia di avventure, magari combinando pozioni col Piccolo Chimico?
Non ricordo di aver corso o fatto correre grossi rischi, ma certamente la mia crescita non è stata ridotta ad un incremento atletico/performativo sullo strumento. I miei genitori erano storici dell’arte: mio padre dirigeva la Sezione disegni agli Uffizi, la mamma si occupava dei codici miniati alla Biblioteca Laurenziana. Ho visitato musei e molte mostre internazionali, viaggiando con loro, ed ho avuto sempre a disposizione una biblioteca e una discoteca vastissime, che sono state per me un terreno di gioco e di esplorazione. Non facevo esplodere pozioni chimiche, ma impilavo dischi e divoravo libri. Nell’idea dei miei genitori la musica era un’arte meravigliosa, che mi avrebbe fatto crescere come persona migliore.

Così è stato, e mi sembra che sia avvenuto tutto in modo molto naturale e sereno
Penso di aver avuto il tempo per crescere, allargare lo sguardo ad una visione più ampia, e piano piano trovare la mia voce. Certo è importante studiare a fondo, per padroneggiare la tecnica dello strumento nel modo più efficace, ma l’obiettivo è sempre quello di esprimere qualcosa, che sia fedele al testo in modo rigoroso ma anche personale. È un risultato che può sembrare naturale e semplice, ma è invece in molti casi messo in pericolo dalla fretta, dall’urgenza di raggiungere certi traguardi.

Pensi che l’aver studiato presto anche la composizione sia stato per te di aiuto in questo senso?
Frequentare la classe di composizione ha contribuito senza dubbio alla mia crescita intellettuale e culturale, forse proprio perché non avendo una meta strettamente professionale, cercavo di trarne in primis ispirazione, una parola che ritorna in questo nostro dialogo e che amo molto.
Sciarrino e Pezzati insegnavano in modo globale: si faceva lezione in molti modi, anche ascoltando e orchestrando un preludio di Debussy o visitando insieme una mostra agli Uffizi. Erano pomeriggi molto intensi e formativi.

Non hai mai pensato di comporre?
Sono stato ammesso presto nella classe di composizione, intorno ai 17 anni, frequentando le lezioni di Sciarrino per circa sette anni. Ricordo che un giorno il maestro mi mise di fronte ad una evidenza, con una semplice domanda.
In quel momento ero appassionato ed influenzato fortemente dalla musica di György Kurtág, quindi scrivevo in due settimane un pezzo di sole 20 note… anche se super ragionate… Sciarrino cercava senza successo di spingermi verso un’attitudine e una produzione più generose e abbondanti.
Un giorno mi chiese quante ore dedicassi quotidianamente allo strumento, e alla mia risposta che si trattava di sei/sette ore, lui mi incalzò con una seconda domanda: “E quanto tempo dedichi ogni giorno a comporre?” Io componevo, con grande serietà, in due o tre momenti durante l’intera settimana. Fu un modo diretto per pormi di fronte al fatto che lo strumento era la mia reale dimensione, mentre la composizione un’avventura intellettuale.

Quindi avevi scelto già il violoncello come compagno di viaggio?
Andrea Nannoni mi ha tenuto su un binario della crescita costante, ma ha anche assecondato saggiamente – e pazientemente – certe mie scelte e gusti poco ortodossi: mi interessava poco un concerto come quello di Eduard Lalo, e mi entusiasmava invece quello di Honegger, così come scelsi il Primo Concerto di Šostakóvič rispetto al pur splendido Dvořák per il diploma.
Influenzato dagli ascolti delle interpretazioni di Anner Bijlsma (con cui poi ebbi la grande fortuna di studiare in due splendide masterclass organizzate dagli Amici della Musica) ritenevo fondamentale studiare e suonare la Quinta Suite di Bach con la scordatura prescritta dall’autore; Nannoni – pur insegnandola normalmente con l’accordatura standard – mi concesse anche questa “avventura” e ricerca con partecipe curiosità.
Questa capacità di un maestro che sa cogliere la peculiare curiosità dello studente e, pur tenendolo ancorato al suolo, riesce anche a svilupparne la creatività è secondo me di fondamentale importanza, ed è qualcosa a cui aspirare nell’insegnare.

E il Quartetto Prometeo?
Il quartetto nacque dalle prime parti dell’OGI, e infatti fu battezzato da Piero Farulli con l’interminabile nome di Quartetto dell’Orchestra Giovanile Italiana 1993.
In realtà il nome dei primissimi concerti fu quello di Quartetto Paul Klee, non solo il mio artista preferito ma anche violinista in un quartetto di amatori; purtroppo scoprimmo che esisteva già un complesso con quel nome.
Il nostro primo violino era Ludovico Tramma, il secondo Tiziana Tentoni e la viola Carmelo Giallombardo. Pochi anni dopo abbiamo colto l’occasione dell’ingresso di Aldo Campagnari nel ruolo di secondo violino per darci un nome che fosse più eufonico: avevamo anche scoperto, andando a suonare in Giappone, che per loro “Quartetto OGI” voleva dire “Quartetto Zia”, o qualcosa di simile…
Aldo è entrato nel ‘96 – anche lui era stato spalla dell’OGI, e poi ci sono stati altri avvicendamenti: oggi il primo violino – da oltre dieci anni – è Giulio Rovighi, mentre la viola è dal 2018 Danusha Waskiewicz.

Quindi dal 1993 ad oggi hai fatto esperienza delle intense dinamiche del quartetto
Indubbiamente ne ho vissuto tutte le sfumature! Fare musica da camera ad un livello non superficiale o passeggero è qualcosa che ti mette a confronto con l’essenza di una personalità. Quando fai musica profondamente è inevitabile mettersi a nudo: quello che ho capito è che si mettono in gioco, oltre ai lati “forti”, anche le proprie insicurezze.
Una delle cause principali dei momenti più difficili è proprio l’insicurezza, il sentirsi giudicati o non apprezzati: è molto importante che la fiducia reciproca circoli fra i quattro leggii e sia la base dei rapporti in un gruppo da camera.

Essere l’unico ad aver fatto parte del gruppo fin dall’inizio ti carica di un onere particolare?
Direi di no, per me è importante che la responsabilità sia condivisa in parti uguali.
Credo di aver fatto un grande percorso anch’io, in questi 27 anni: ricordo che all’inizio avevo una visione interpretativa istintivamente forte e definita, mentre adesso sono felice di contribuire ad una direzione musicale comune, che mettiamo in gioco tutti insieme… si suona e si risuona, si cerca, magari si può suggerire una prospettiva. In realtà quando suoni con artisti che stimi non vuoi imporre un’idea, ma piuttosto condividerla e sperare che ispiri i compagni; desideri soprattutto metterti in ascolto insieme e partecipare intensamente a quello che accade.
L’obiettivo è sempre stato quello di avere un dialogo tra persone che intendono la Musica nello stesso modo, dovunque esse si trovino (infatti abitiamo in quattro città diverse!). Per come intendiamo far quartetto, la comodità geografica non poteva essere un criterio di scelta, e infatti non lo è mai stato.
Nella lunga vita del Prometeo i momenti difficili non sono mancati, ma stiamo vivendo oggi un periodo davvero bello, c’è un’onda positiva basata sull’ascolto reciproco e il costruire insieme: anche l’incontro dopo la lunga clausura primaverile è stato un momento di gioia assoluta e così i concerti di questi mesi!

Avevi scelto tu il nome di Prometeo che, prima ancora delle vicende mitologiche, è etimologicamente “colui che guarda avanti”?
In effetti era stata mia l’idea di questo nome: c’erano vari significati, un richiamo diretto al Prometeo di Luigi Nono, compositore che aveva fatto della sua arte una azione politica ed etica.
Ma forse ancora più importante era il riferimento al mito greco, un vero e proprio mito di rivolta: il senso traslato era quello di metter in discussione pur rispettandola, la tradizione, guardando al testo musicale come a qualcosa di vivo e sempre “contemporaneo”.
Sin dall’inizio abbiamo cercato un atteggiamento interpretativo che studia il testo con sguardo consapevole ma libero.
Il “si fa così” della tradizione è importante, va conosciuto e offre soluzioni che hanno dato prova di grande validità, ma è comunque necessario che il testo “rinasca” ogni volta nelle mani di chi lo interpreta.
I compositori, quando li incontri da vivi, hanno molto rispetto e attenzione per un interprete intelligente e consapevole, ed hanno bisogno del contributo di qualcuno che legge con cura, ponendosi delle domande e cercando risposte personali.

Da questo punto di vista hai un’esperienza vastissima
In effetti ho cominciato molto presto a confrontarmi con la musica contemporanea e con gli autori: Salvatore Sciarrino è stato anche per questo molto importante, perché mi ha dato fiducia aprendo una porta che non si è mai più chiusa. Mi chiese di sostituire in concerto, con una sola settimana di preavviso, il violoncellista dell’ensemble Alter Ego nel suo Trio n. 2. Il pezzo era mostruosamente difficile, acutissimo, ma mi tuffai nell’avventura accorgendomi che, nonostante il poco tempo a disposizione, non avevo grandi difficoltà nell’approccio.
Subito dopo mi ha affidato Variazioni per violoncello e orchestra, un lavoro degli anni ’70, che non aveva avuto frequenti occasioni di esecuzione… avevo poco più di 20 anni. Intanto nei saggi di composizione mi trovavo ad eseguire sempre più spesso nuovi lavori per violoncello: tra i miei compagni c’erano ottimi compositori come Tiziano Manca, Gianluca Ulivelli e anche Francesco Filidei, con cui la collaborazione è tuttora particolarmente intensa.

Sono moltissimi i compositori di oggi che frequenti nei tuoi concerti
È così sin dai primi anni della mia attività. Negli ultimi anni molte occasioni sono legate alla direzione artistica, insieme al pianista Emanuele Torquati, di un festival qui a Firenze che ha compiuto dieci anni nel 2019. Si chiama Music@villaromana ed è uno spazio di cui sentivo il bisogno, tornando in città. Volevamo creare qualcosa di libero, lontano dalle logiche che spesso animano queste iniziative, e soprattutto far ascoltare anche a Firenze musiche di grande valore, incontrate nei festival internazionali. Avevo voglia di aprire una finestra sul mondo nella città in cui vivevo.
Una prima esperienza memorabile fu ad esempio l’incontro con Jonathan Harvey, compositore inglese recentemente scomparso, autore di Curve with plateaux, pezzo per violoncello solo che suono da molti anni (la prima partitura contemporanea che ho comprato, negli anni ’80).
Organizzammo la sua venuta in Italia nel 2006 per tre concerti, e da lì è nata l’idea di dare continuità all’esperienza di ascolto della nuova produzione musicale.

Avete avuto aiuto dalle istituzioni?
Villa Romana, in via Senese, è una residenza tedesca per artisti visivi. È una fondazione, finanziata da un mix di fondi pubblici (tedeschi) e privati.
Un luogo libero, dove l’intelligenza e la sensibilità della direttrice Angelika Stepken hanno permesso di realizzare in completa spontaneità tutti questi sogni, partendo dalla considerazione fondamentale che, se si condivide un progetto, in qualche modo si riuscirà a realizzarlo.
Abbiamo invitato ed eseguito molti compositori, iniziando dagli “amici” come Sciarrino e Filidei, ma poi anche tanti altri che a Firenze – e addirittura in Italia – non si erano mai ascoltati. Come Thomas Larcher, che scrive per le maggiori orchestre e istituzioni del mondo ed è tra i più importanti autori di oggi, oppure Simon Steen-Andersen, compositore danese che lavora in modo super originale col teatro e la performance, o anche Matthew Shlomowitz… tante esperienze gratificanti in una situazione che potremmo definire alternativa: lo spazio non è molto grande, perciò non possono esserci più di 80/90 persone. È un’esperienza di contatto molto ravvicinato tra la musica e gli ascoltatori, che arrivano grazie ad un passaparola spontaneo con l’aiuto dei social e di una nutrita mailing list.

L’impegno organizzativo aggiunge ancora qualcosa alla tua già vasta esperienza
Il festival è una specie di laboratorio, e mi ha consentito di aprirmi e diventare meno ideologico. Quando negli anni ‘90 venne a Firenze Steve Reich ricordo che mi accese qualcosa, ma ne ero quasi imbarazzato. In quel periodo era difficile associare Nono e Steve Reich, era una contrapposizione netta anche sul piano politico. A me l’avanguardia piaceva molto, tutto quello che era informale, astratto e sperimentale mi esaltava: ho fotocopiato, studiato e ascoltato tantissima musica, ma devo ammettere che alcune cose sono ora un po’ invecchiate.
Penso che uno dei valori del nostro tempo sia proprio la varietà di stili: quella attuale mi pare un’epoca molto ricca per la nostra curiosità. Si è persa la grande lingua musicale del passato, ma si sono create tante lingue più sottili e bizzarre, nelle quali c’è sempre qualcosa che ci può interessare e stimolare.

Forse si è anche preso atto che l’avanguardia non dev’essere per forza così complessa da rischiare l’incomunicabilità
Vero, ma se cerchiamo la comunicabilità come valore primario rischiamo altri difetti; a mio avviso la comunicazione nasce da una forza del pensiero, da una focalizzazione di ciò che facciamo. E questo vale anche per l’interpretazione. Quando cerchiamo scorciatoie di comunicabilità otteniamo dei risultati innegabili e talvolta possiamo esser premiati da un successo immediato, ma alla lunga perdiamo il vero valore che è quello di un piacere “complesso” e non epidermico.
Temo che l’essere umano perda gradualmente la capacità di “fare fatica” e dunque di migliorarsi. L’ascolto musicale dev’essere sempre un mettersi corpo a corpo con il materiale in modo attivo. Non credo nell’abbassamento del livello di quello che facciamo: il concerto deve risuonare nella testa e nel corpo di chi è venuto a sentire, non può essere l’intrattenimento di un’ora o poco più.

Continui a lavorare anche sulla musica di repertorio, con scelte originali come l’incisione di tre dischi di rarità schumanniane con Torquati. Cosa ti succede quando viaggi attraverso le epoche?
Succede sempre la stessa cosa, ovvero cerco un confronto con il testo musicale. Ognuno di questi compositori richiede agli interpreti di mettersi in gioco, e tengo molto a rifuggire dagli specialismi, perché per me il contemporaneo è semplicemente l’oggi di una storia che desidero continuare a raccontare.
Finché il linguaggio si basa sull’armonia, l’ascolto e la sensibilità al parametro armonico sono molto importanti. Forse a causa della mia formazione di quartettista, considero il contesto armonico una guida fondamentale, anche in una Suite di Bach.
La musica del passato dialoga continuamente con l’oggi: suonare Sciarrino mi ha “imposto” di confrontarmi con il confine tra suono e silenzio, che nella sua musica è guardato con una lente d’ingrandimento: anche in Beethoven o Schubert si aprono abissi di silenzio che interrogano l’interprete nello stesso modo. Nella musica contemporanea impari che spesso non puoi studiare una figurazione se non partendo dal gesto musicale: penso ad esempio a Ligeti, in cui il “gesto” viene necessariamente prima delle 72 note veloci del passaggio o alla complessità di istruzioni in un suono nella musica di Lachenmann… lo stesso succede anche in Bach, o in Schumann dove le note singole vanno necessariamente riunite in veri e propri gesti musicali.
Lo sguardo sul passato, al tempo stesso, mi rende più esigente sulla produzione contemporanea. Ai giovani compositori chiedo che il testo sia fertile e ricco di interrogativi: quando sento che la partitura è un mero “kit d’istruzioni” esecutive il mio interesse cade presto.

Veniamo infine al nuovo Corso di perfezionamento di violoncello. Come pensi di impostare il lavoro insieme al collega Paolo Bonomini?
Direi che non sono interessato all’alta routine, vorrei che lavorassimo invece per potenziare le qualità di ogni studente, partendo dai talenti di ciascuno per arrivare ad individuare quale possa essere il posto di ognuno di loro nel fare musica.
Non credo che il destino di ciascuno sia quello di suonare il Concerto di Dvořák. È un passaggio di formazione fondamentale, ma in qualcuno risuonerà di più, ed in altri di meno.
È importante intuire quale sia la voce di ognuno e aiutarlo a trovarla. Il solista, l’insegnante dei bambini, il professore d’orchestra… c’è spazio per tutte queste attività, e tutte sono ugualmente importanti… Ho avuto tra i miei allievi Naomi Berril, che oggi suona e canta la sua stessa musica, così come Michele Marco Rossi splendido esecutore di musica d’oggi e tanti ragazzi dediti alla prassi barocca o al quartetto d’archi.
Penso sia importante mantenere un ampio ventaglio di possibilità, senza che questo generi alcuna frustrazione.

Per individuare le potenzialità di ognuno è necessaria una conoscenza approfondita
Sono orgoglioso di poter dire che ho solitamente bellissimi rapporti con gli studenti: sono tuttora in amicizia con gli allievi della mia prima classe di Fiesole, dove qualcuno ha preso altre strade, magari diventando un chirurgo (che può suonare un quintetto di Brahms!) come Giovanni Quartararo. Un meraviglioso risultato! Credo di avere una naturale empatia con le persone che hanno la giusta curiosità nei confronti della musica.
Citando Stefan Zweig (un insegnamento di mia madre, che ne è appassionata), servono “pazienza, tecnica e visione”, dove la prima è l’indispensabile senso della disciplina, la seconda è necessaria per superare e “dimenticare” le difficoltà, e l’ultima, forse la più importante per l’artista, ma inutile in assenza delle precedenti, è l’ispirazione.
Sono tre qualità che riassumono bene il complesso, ma appagante e insostituibile piacere del fare musica e spero di poterle trasmettere ai giovani che si affacciano alla professione.

Quindi un potenziale allievo deve sapere cosa lo aspetta…
Con Paolo Bonomini alterneremo gli appuntamenti. Auspico che chi partecipa al corso si fermi in classe per ascoltare le lezioni dei compagni (anche se temo che nei primi mesi l’emergenza covid non lo permetterà). La prospettiva di crescita individuale è importante, ma dev’essere condivisa con gli altri. Come insegnante vorrei aiutare la formazione di un musicista che in primis sa ascoltare: un violoncellista pur straordinario, ma che non comunica con gli altri, non è tra gli obiettivi del mio lavoro.
Paolo Bonomini ed io non ci conosciamo, se non virtualmente e telefonicamente; l’ho ascoltato e lo stimo molto per gusto e intelligenza musicale. Tra l’altro, a differenza di me, ha un’esperienza importante dell’orchestra, essendo il primo violoncello della Camerata Salzburg. Sono certo che gli allievi si avvantaggeranno della nostra presenza alternata, anche facendo ascoltare ad entrambi uno stesso repertorio.

Come mai tra le tue tante attività non c’è l’orchestra?
Ho cominciato subito con il quartetto, e in orchestra ho fatto solo qualche sporadica esperienza. Ricordo in particolare quella, comunque dallo spiccato senso cameristico, fatta nei primi anni ’90 con i Solisti dell’Accademia Filarmonica Romana formati da Sinopoli, che mi coinvolse insieme a musicisti importanti come Vernikov e Carmignola.
Fu un grande onore, ma ho sempre pensato che i tempi veloci di produzione dell’attività in orchestra non siano fatti per me, che amo processi di decantazione più lunghi.

E, al di fuori della musica, riesci a prendere un po’ di tempo per te?
È essenziale! Innanzitutto per non chiudersi in soli argomenti musicali ma ricevere sempre nuovi stimoli da incontri umani, letture (sono un appassionato bibliofilo), visioni cinematografiche o visite a mostre o musei. Anche in tournée cerco di non rinunciare ad uno spazio di scoperta e di libertà. Viaggiando molto (prima degli ultimi mesi naturalmente), in particolare in due mete ricorrenti e amatissime quali Argentina e Giappone, ho preso l’abitudine di prolungare il soggiorno oltre la durata dei concerti, per vedere e conoscere senza fretta.
Sempre alla ricerca di nuova ispirazione…

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