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Intervista a Ricardo Castro

Da qualche anno Ricardo Castro, notissimo pianista e direttore d’orchestra brasiliano, è entrato a far parte della squadra dei docenti dei Corsi di Perfezionamento della Scuola, e offre agli allievi fiesolani i frutti di un’esperienza poliedrica e originale, che rappresenta una felice combinazione tra talento, impegno e coraggio. Con grande semplicità ci racconta il suo eccezionale percorso formativo e professionale, nel quale il far musica con partner di grande prestigio convive con la lucida consapevolezza del ruolo sociale e culturale del musicista nel mondo di oggi.
Lo incontriamo via Skype, appena arrivato in Europa per riprendere le lezioni alla Haute Ecole de Musique Vaud Valais di Friburgo, in Svizzera, dove insegna dal 1992.

 

La musica è entrata prestissimo nella tua vita
Viveva con noi una zia, che essendo una pianista amatoriale iniziò a dar lezioni a mia sorella, di poco più grande di me. Avevo tre anni, e fu facile accorgersi che ascoltando le loro lezioni imparavo molto velocemente, senza nessuno sforzo (anche se suscitando un certo disappunto in mia sorella).
A cinque anni ho iniziato a frequentare un corso istituzionale di musica, presso la Scuola di Musica dell’Università Federale di Bahia e ho avuto la fortuna di avere un’ottima insegnante, Esther Cardoso, che a Parigi era stata allieva della celebre pianista Marguerite Long. Ho iniziato presto a partecipare ai concorsi, e sono rimasto a Bahia fino al diploma, frequentando anche il liceo ed arrivando ad iscrivermi all’università, ma ad un certo punto ho sentito il bisogno di cercare qualcos’altro, e sono venuto in Europa.

Sei partito con un obiettivo definito?
Sono venuto in Europa per studiare con Maria Tipo, di cui conoscevo la grande arte ed il valore di insegnante. Il primo incontro con lei è stato al Concorso internazionale di Ginevra, al quale partecipai nonostante poco prima mi fossi fratturato un piede (giocando a calcio nelle pause di un festival estivo). Mi parve giusto evitare il compatimento della commissione e così subito prima della prova mi feci togliere il gesso, che immobilizzava il piede da qualche settimana.
Il problema fu però che non ero assolutamente in grado di controllare l’uso del pedale, che durante tutta la mia esecuzione produsse una specie di tremolo. Non fui ammesso alla seconda prova, ma approfittai della presenza di Maria Tipo tra i giurati per andare a parlarle. Mi chiese subito come mai avessi fatto un uso così scadente del pedale, così le rivelai della frattura, e fu molto comprensiva e incoraggiante.
Poche settimane dopo ci fu la prova di ammissione al corso di Virtuosité che Maria Tipo teneva presso il Conservatorio di Ginevra: 40 candidati per due soli posti! Fui ammesso insieme ad una pianista italiana, Gabriella Dolfi. Era il 1984.

Così, dopo quella brasiliana, iniziava la tua nuova vita svizzera
È stato fantastico! Maria Tipo ha cambiato completamente la mia vita: ho finalmente capito cosa significa studiare, e ho cominciato a farlo davvero, come in Brasile non avevo mai fatto. Avevo 19 anni, ed era il limite di età per cominciare a fare qualcosa di serio: Maria Tipo mi ha accompagnato in un percorso professionale, pur apprezzando la mia versatilità.

In che senso?
Ho un esempio, forse un po’ fuori tema. In Bahia non avevo musicisti classici tra gli amici, e così per far musica insieme, nei lunghi mesi al mare – dove, non potendo portare il pianoforte in spiaggia, avevo con me la chitarra – suonavamo la musica popolare brasiliana, un po’ di jazz, la bossa nova. Maria Tipo mi ascoltò a Ginevra suonare anche quel repertorio, e le piacque molto.

Tornando alle sue lezioni, cosa porti con te della sua scuola?
Moltissime cose, ma partendo da una base di fiducia che mi ha permesso di costruire senza distruggere quello che già sapevo: Maria Tipo non mi ha mai detto “la tua tecnica è sbagliata”, mi ha fatto capire che dovevo acquisire maggiore professionalità, aggiungendo al mio bagaglio altri strumenti che mi hanno permesso di trasmettere meglio ogni idea musicale.
Nella sua classe si deve essere a posto con la tecnica, le scale devono essere legate, veloci e perfino “cantabili”. Ho fatto anch’io questo percorso, ed è stato bene farlo, per migliorare.
Le lezioni di Ginevra erano ogni tre settimane, così ho dovuto imparare a strutturare il lavoro, perché per ogni lezione doveva essere preparato un repertorio importante, a memoria, e soprattutto si doveva suonarlo per lei. Per questo studiavo in modo diverso, la sua intensa partecipazione ai miei sforzi spingeva più avanti il mio desiderio di far bene. Maria Tipo riusciva ad essere insieme materna ed estremamente professionale, ed anche questo è un talento speciale, per un’insegnante: la maternità significa affetto, fiducia e sguardo attento e partecipe, mentre la severità professionale comporta per l’allievo un gran timore, ma anche la paura in questo caso non fa male, è una paura che significa soprattutto rispetto per chi ti ascolta e ti dedica il suo tempo. Con Maria Tipo ho trovato qualcuno che mi ha fatto capire che potevo fare di più, cosa che in Brasile non mi succedeva (non era difficile, a Bahia, sentirsi bravissimi…).
Questo rapporto così forte è passato anche sul piano della comunicazione verbale: non conoscevo l’italiano, ma l’ho imparato parlando con lei, col desiderio di appropriarmi, anche attraverso la lingua, della cultura europea, e italiana in particolare.

Per quanti anni hai frequentato il Conservatorio di Ginevra?
Questa esperienza così esaltante e significativa è stata purtroppo breve: il corso aveva durata triennale e, una volta conseguito il diploma di Virtuosité, non ho più avuto un maestro. Ho lavorato con Dominique Merlet, ma non in una vera classe. Intanto ho vinto un premio importante al Concorso ARD di Monaco, e ho conosciuto grandi pianisti, come Martha Argerich, Alicia de Larrocha, Friedrich Gulda, Maria João Pires: ho suonato per loro e con loro, ed anche così ho imparato molto, ma Maria Tipo è stata la mia unica insegnante in Europa.

Sei sempre rimasto in contatto con lei?
Certamente! La chiamo quando sono in Europa, e sono andato a trovarla molte volte. Le sono grato per moltissimi motivi: per avermi insegnato la bellezza del suono, lo stile e il rispetto della partitura, ma anche e soprattutto perché credo di dovere a lei la passione per l’attività didattica. Tutti gli allievi di Maria Tipo insegnano, anche se hanno vinto primi premi nei massimi concorsi internazionali ed hanno un’attività concertistica di alto livello. Del resto, restando al solo Conservatorio di Ginevra, ci sono stati Dinu Lipatti, Nikita Magaloff, Maria Tipo e non possiamo certo dimenticare Liszt… tutti grandissimi concertisti che hanno voluto insegnare. Il grande problema di oggi è la separazione fra chi suona e chi insegna: negli ultimi 50 anni abbiamo perduto per questo due generazioni, che non hanno continuato a trasmettere la tradizione. Il risultato è che oggi entrano nel mercato pianisti perfetti ma senza nessuna storia; anche se suonano tutti gli studi di Chopin senza un errore, mancano la magia e la poesia, perché non c’è libro che possa sostituire le parole e l’esempio di un vero maestro. Maria Tipo viene da sua madre, allieva di Busoni, e dalla scuola russa di Anton Rubinstein. È una storia importante, fatta di artisti-maestri che hanno saputo trasmettere la loro esperienza di interpreti ai più giovani e formarne il gusto. Altrimenti è la morte della musica.

Hai perfettamente ragione… torniamo alla tua storia
Sono rimasto in Europa e ho partecipato ad altri concorsi, fino a vincerne uno veramente importante come il Leeds International Competition, nel 1993: avevo bisogno di un “passaporto” europeo, perché quello brasiliano non era sufficiente a qualificarmi professionalmente. La gente ha bisogno di questi premi per poter dire: “se ha vinto è un buon pianista”, anche se non sempre è vero. Intanto avevo già cominciato ad insegnare; non ho mai avuto allievi privati, perché subito prima di partecipare al concorso di Leeds ho iniziato a tenere un corso di perfezionamento a Friburgo. Dopo la vittoria del concorso, il mio agente voleva che lasciassi Friburgo, ma io non ho ascoltato il suo consiglio, e ne sono felice.
Non ho più abbandonato la Svizzera e ho sempre avuto due residenze in Europa (ho vissuto a Parigi e a Montreux, oltre che a Friburgo). Ma avevo bisogno anche di qualcosa di meno organizzato della Svizzera così, quando ho iniziato ad occuparmi di un progetto sociale in Brasile, ho mantenuto solo un indirizzo europeo ed ho iniziato a fare la spola tra il Vecchio Continente ed il Brasile. Negli ultimi 12 anni ho sorvolato l’Atlantico ogni mese.

Dev’essere senz’altro un progetto speciale, se ti spinge ad una vita così faticosa
Fin da bambino desideravo dirigere, e a Ginevra avevo frequentato per un anno anche il corso di direzione d’orchestra. Poi non ho più avuto il tempo per continuare a studiare la direzione, ma il destino mi ha riportato pian piano all’antica passione: nel 2005 ho conosciuto El Sistema venezuelano. Il film di Alberto Arvelo, Tocar y luchar, mi ha sconvolto, e ne ho parlato a molte persone in Brasile, convinto che questo progetto potesse esser messo in pratica anche da noi. Tra i tanti con cui ho condiviso questi pensieri c’era un amico che è poi divenuto segretario per la cultura nello Stato di Bahia (che è grande come la Francia). Mi ha convocato per informarmi che aveva accettato l’incarico proprio per far nascere un Sistema musicale in Bahia, ma che avrei dovuto necessariamente esserne io il responsabile. “Senza di te non si fa”, mi ha detto, e così ho cambiato la mia vita. Ho cominciato a rifiutare gli inviti per i concerti in Europa nei periodi dedicati al progetto educativo, e sono stato molto occupato a costituire nuclei di educazione musicale nello Stato di Bahia.
Ho dovuto iniziare anche a dirigere i bambini, e con loro ho imparato: loro non sapevano suonare, io non sapevo dirigere… ci siamo aiutati per formare Neojiba, sigla che sta per Nuclei di orchestre giovanili e infantili dello Stato di Bahia.
All’inizio, nel 2007, seguivamo 82 bambini con un investimento di 50.000 dollari; adesso abbiamo 2.000 bambini e ragazzi ed un budget di 4 milioni di dollari. È un lavoro in crescita, che per fortuna non si è interrotto neanche con il Covid-19: i politici hanno capito che questa attività è essenziale per la popolazione. Così, all’inizio della pandemia, siamo passati alle lezioni online, fornendo agli allievi più poveri sim card e tablets. Il sistema era già ben sviluppato in rete, permettendoci in soli due giorni di organizzare la didattica a distanza per tutti.

Com’è la situazione in Brasile, in questo momento?
Il Brasile è grande come gli Stati Uniti, ma da noi non si fanno i test, quindi il numero dei contagiati è sconosciuto e potrebbe essere altissimo, considerando che ci sono molte più persone povere… Non sapremo mai cosa sia successo davvero.
La vita a Bahia è confinata: lavoriamo da casa e i negozi sono chiusi, ma non c’è un reale divieto di uscire. Per strada c’è molta gente, le persone hanno la mascherina ma non sono sufficientemente distanziate. Ci sono “estremisti” (come in Svizzera) che non mettono la mascherina e contestano le disposizioni sanitarie.
Qui a Friburgo invece la situazione è più normale: sono in quarantena per mia decisione personale, dopo il viaggio dal Brasile, ma fra pochi giorni potrò cominciare le lezioni al Conservatorio.

Hai fatto anche tu, in questo periodo, lezione online?
Sì, anche se non per tutti gli allievi è stato facile trovare stimoli allo studio, in questa situazione difficile. La lezione online è buona, perché i ragazzi si registrano e finalmente capiscono che il maestro ha ragione (ride, n.d.r.). Registrare una propria esecuzione responsabilizza i giovani musicisti che, riascoltandosi prima di inviare, sono costretti a fare autocritica, e studiare ancora per inviare al maestro un’esecuzione migliore. Purtroppo l’incontro sincronico è condizionato spesso da una connessione modesta, ma comunque entrando in Zoom riesco a passare il messaggio pedagogico e a mantenere un contatto diretto con gli allievi.

Vuoi raccontarci del tuo corso alla Scuola?
La mia vita è molto cambiata da quando ho cominciato a dirigere, mi sono aperto. Ho conosciuto molti pianisti depressi per la solitudine dei viaggi e del lavoro, nonostante il successo, i concerti importanti e i contratti discografici con le case più celebri.
Qualcosa non funziona: il pianoforte chiede molto, il repertorio è immenso, e non tutti hanno la struttura psicologica per passare l’intera vita davanti ad un pianoforte.
A Fiesole volevo perciò fare qualcosa di diverso, e ho pensato che la prima cosa che un pianista possa imparare è come lavorare in gruppo; questo richiede una preparazione specifica, perché la musica se ne avvantaggi. Credo che non ci sia niente di peggio che la musica da camera fatta con persone che non ti piacciono. Il risultato artistico è un disastro, anche se i musicisti sono individualmente bravissimi.
Il pianista può essere leader del gruppo se capisce come agiscono gli altri strumenti, cosa deve dire e cosa non deve dire. Questo l’ho imparato con l’orchestra: c’è un repertorio che si può dirigere dalla tastiera, così ho pensato di insegnare ad alcuni pianisti come lavorare insieme agli altri dalla tastiera. La buona notizia è che i ragazzi che si sono iscritti al corso erano già interessati, hanno una mente aperta.
Le attività sono sempre in gruppo e comprendono la lezione di pianoforte (perché se vuoi parlare agli altri devi prima essere in grado di far bene la musica) che tutti ascoltano, come ho imparato nella classe di Maria Tipo, in cui gli allievi arrivavano da tutta l’Europa per partecipare a tutte le lezioni. Quelle degli altri sono sempre utilissime, per ciò che viene fatto bene e anche per quello che impari a non fare.
Abbiamo due o tre momenti per la tecnica di direzione, a cui gli allievi si preparano seguendo le mie indicazioni bibliografiche, relative anche all’analisi delle partiture.
Quattro allievi suonano una sinfonia nella riduzione pianistica per otto mani su due pianoforti ed uno li dirige. Poi lavoriamo sui concerti pianistici che si possono dirigere dalla tastiera, partendo da Mozart per arrivare a Ravel e Gershwin. Del resto il pianista deve poter dirigere con gli occhi, quando le due mani sono occupate; ci sono molte cose che si imparano con l’esperienza, e poi si possono trasmettere. Collaboriamo anche con la classe di quartetto, perché è importante sapere come funzionano gli archi.
Infine offro elementi di accordatura del pianoforte: ho chiesto a tutti di comprare la chiave, e stanno imparando ad accordare lo strumento, attività che tutti i musicisti – tranne i pianisti – normalmente fanno da soli, e serve a sviluppare l’orecchio.
Penso che un corso di questo tipo apra la mente, cosa molto utile nel mondo di oggi. Del resto nel passato era così: Liszt era compositore, insegnante, concertista, direttore d’orchestra… La modernità ha suddiviso le competenze dei musicisti, incoraggiando una specializzazione esasperata, e togliendoci molte possibilità.
È grazie al fatto che grandi artisti come Liszt e Chopin insegnavano, che oggi siamo qui. La tradizione è arrivata fino a me perché qualcuno non si è accontentato di suonare e basta… ed ora tocca a noi!

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