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Valentina Peleggi da Fiesole agli USA

Una bella storia d’impegno, talento, passione e coraggio: è quella che ci ha raccontato Valentina Peleggi, lanciata da qualche anno in un’intensa attività internazionale di direttrice d’orchestra.
L’abbiamo vista bambina alla Scuola e, ritrovandola adulta oggi, siamo felici che non sia affatto cambiata. Parla con semplicità dei suoi traguardi importanti, ricorda la Scuola con affetto e gratitudine: ascoltare le sue parole restituisce un significato profondo all’impegno di tutti coloro che, da Fiesole a Londra, da San Paolo del Brasile a Richmond, le hanno insegnato a far musica ed hanno riconosciuto il suo valore musicale ed umano.

Dove ti trovi?
A Firenze, sono rientrata da alcune settimane. Sono con la mia famiglia, perché la mia casa è a Londra da un anno e mezzo, da quando cioè ho lasciato il Brasile…

Aspetta un momento…forse è meglio tornare indietro e cominciare dall’inizio. Come sei arrivata alla musica?
Da piccola avevo iniziato a studiare il pianoforte in parrocchia, con tanto entusiasmo: l’insegnante mi piaceva tanto, ed ero felice. Ma come spesso capita nelle piccole scuole, il maestro ad un certo punto aveva lasciato l’incarico, e così ero passata al violino, che ho suonato per due anni. Il pianoforte restava però lo strumento che preferivo: dopo aver provato a riprendere con un nuovo insegnante, non trovandomi bene, manifestai l’intenzione di lasciar perdere.
Fu allora che la mia nonna materna suggerì di provare l’ammissione a Fiesole, sperando che entrare in una scuola così importante e rinomata mi restituisse l’entusiasmo perduto.
Così, suonando Per Elisa all’esame di ammissione, sono stata accolta nel 1996 nella classe di Enrico Stellini. Ho trovato in lui un maestro fantastico, e ancora oggi mi dico quanto sono stata fortunata, sia a poter studiare con lui, sia a crescere nella Scuola.
Se le cose non fossero andate così avrei certamente smesso di studiare musica, e la mia vita sarebbe stata molto diversa e sicuramente meno ricca. Enrico Stellini è stato per me un vero maestro, che è più di un professore. Mi ha sempre incoraggiata, portandomi fino al diploma con grande serietà e impegno.

Ma ad un certo punto hai capito che non ti saresti espressa in musica attraverso il pianoforte…
È stato un momento molto delicato, quello in cui ho detto al maestro che mi sarebbe piaciuto dirigere l’orchestra. Non mi ha scoraggiato, anzi è stato il mio primo appoggio, in questo nuovo e inizialmente improbabile progetto. Mi ha preso sul serio, mi ha dato fiducia, e questo è stato per me molto importante.
Una volta preso il diploma al Conservatorio di Firenze (nel 2006, quando ancora gli allievi della Scuola sostenevano gli esami da esterni) ho iniziato a studiare composizione, che nel vecchio ordinamento era obbligatoria per accedere al corso di direzione d’orchestra. Ma intanto veniva varato il nuovo percorso di studi accademici, così ho potuto accelerare verso la direzione, iscrivendomi al Biennio di direzione d’orchestra del Conservatorio di S. Cecilia, a Roma.

Com’è andata?
Non è stato facile. Nel mio primo anno il Conservatorio di S. Cecilia venne commissariato, e le lezioni non cominciarono neppure. Ma intanto firmavo a Firenze, a 22 anni, il mio primo contratto come direttore del Coro Universitario, del quale sono stata responsabile per dieci anni.

Anche in questo caso c’è una matrice fiesolana, vero?
Decisamente. La musica corale è una delle mie grandi passioni, grazie alle esperienze bellissime che ho fatto alla Scuola, cantando fin da piccola nel coro di Joan Yakkey e poi nella Schola Cantorum Francesco Landini con Fabio Lombardo, e studiando tecnica vocale con Elena Cecchi.
Appena entrata a Fiesole, Piero Farulli mi aveva esortato con il consueto tono imperioso ad iniziare il canto corale, e così a 13 anni mi trovai coinvolta nella produzione di Carmina Burana con il coro di Joan Jakkey. Si trattava di un impegno molto importante, con l’Orchestra e il Coro del Maggio, sotto la direzione di Zubin Mehta, per un concerto che si tenne in piazza della Signoria. Di Carmina Burana conoscevo solo la riduzione pianistica che Joan suonava in classe, così quando sono entrata nella sala prove e ho visto tanta gente, l’emozione è stata grande. Poi abbiamo iniziato, e sono stata letteralmente sommersa da una valanga di suono, con il coro immenso, l’orchestra infinita. Una vertigine assoluta, e di fronte a noi quell’uomo sorridente, sicuro, che dirigeva una massa enorme di persone… ho sentito qualcosa di forte.
Fino a quel momento la musica era stata una delle tante cose della mia vita, ma lì mi sono sentita parte di un tutto grandioso: col mio piccolo apporto contribuivo ad una realtà meravigliosa e potente, insieme a tante altre persone.
Così ho cominciato a chiedere di poter assistere alle prove, pregando i miei di accompagnarmi spessissimo al Comunale: la portinaia mi faceva sempre entrare (“sì, è quella ragazzina…”), così dopo la scuola andavo abitualmente in teatro.

Anche alla Scuola non ti saranno mancate le occasioni per assistere alle prove
C’ero sempre, nascosta dietro le ultime file dell’orchestra. Ricordo di aver assistito alle lezioni di direzione di Daniele Gatti con l’Orchestra Galilei, e anche di aver approfittato della gentilezza e della generosità di Nicola Paszkowski che, quando provava con la Galilei o con l’Orchestra Giovanile Italiana, mi avvertiva sempre degli orari.
Facendo parte della Schola Cantorum, lavoravo con lui per le produzioni sinfonico-corali della Scuola, e gli avevo manifestato la mia passione per la direzione. Fu grazie a Paszkowski – in quegli anni anche direttore stabile dell’Orchestra dell’Università di Firenze – che ebbi quel primo incarico alla direzione del Coro Universitario.

A Fiesole non ti è mai capitato di provare a dirigere?
È stata un’esperienza legata alla musica contemporanea, in particolare ad Andrea Portera, anche lui in quegli anni studente a Fiesole. Oltre a dei pezzi pianistici che mi piacevano molto, Andrea aveva scritto anche due opere, Ahamad e nel 2003 Fashion, per la classe di arte scenica di Donatella Debolini. Queste due opere sono state eseguite da studenti e docenti della Scuola, e sull’onda dell’entusiasmo abbiamo creato e gestito per un paio di anni una nostra orchestra da camera, l’Ensemble Italiano.

Torniamo al tuo percorso. Eravamo rimasti a Roma…
Fondamentale nell’esperienza romana, oltre alla laurea biennale, è stato l’incontro con un direttore di grande sensibilità ed esperienza come Bruno Campanella, che era venuto al Conservatorio per una masterclass sul belcanto: grazie a lui mi sono innamorata del belcanto, ed è iniziata la mia passione per l’opera. Vivendo anche lui a Firenze, ho potuto frequentare la sua casa, e ricevere preziose spiegazioni sulle partiture e le prassi esecutive del canto. Un’esperienza formativa utilissima, che si è arricchita della possibilità di accompagnarlo come assistente all’Opéra Bastille di Parigi e alla Lyric Opera di Chicago. L’altro mio nume tutelare per l’opera è stato Gianluigi Gelmetti, direttore di riferimento soprattutto per il repertorio rossiniano: con lui ho studiato all’Accademia Chigiana, e poi l’ho seguito in Italia in varie produzioni.

Arriviamo così al 2010, più o meno…
Conclusi gli studi in Italia, dove non si può andare oltre il titolo di Biennio, mi sono guardata intorno. Sono sempre stata molto desiderosa di migliorarmi, ed ero consapevole che il mio livello tecnico non fosse così alto. Avevo bisogno di imparare ancora tante cose, perciò ho pensato che fosse giusto fare un tentativo per entrare in un’istituzione internazionale di particolare prestigio per la direzione d’orchestra: ho scelto la Royal Academy of Music di Londra, pensando che dovevo tentare ad ogni costo, anche se le possibilità di essere ammessi sono sempre pochissime.

E invece…?
È andata bene! Sono entrata con una borsa di studio e per tre anni, dal 2011 al 2014, ho studiato a Londra. Orchestre fantastiche, una vita culturale straripante in ogni settore. Ma costava molto, e io avevo come unico stipendio quello di direttore del Coro Universitario di Firenze. Così ho trovato alloggio in un ostello della gioventù, dividendo la stanza con altri studenti che andavano e venivano, e alzandomi alle cinque ogni mattina per preparare le colazioni e ottenere così uno sconto sulla retta.
È stata dura, ma ho avuto la possibilità di frequentare le lezioni di Colin Metters (fondatore del corso di direzione, nel 1983) e le masterclass di grandi direttori come Christian Thielemann, John Eliot Gardiner e Semyon Bychkov.

Com’era organizzato il corso?
Con il docente principale le lezioni erano quasi quotidiane, e per le masterclass ognuno degli studenti era incaricato a turno di preparare l’orchestra e fare da assistente ai docenti ospiti. L’orchestra della Royal Academy è ottima, somiglia alla Giovanile, e assistere al lavoro di grandi maestri è sempre una grande lezione.

Ma non ti sei “accontentata” di questo, vero?
Ho anche fondato una piccola orchestra, perché un conto è fare lezione dirigendo alla fine per pochi minuti ogni volta, un conto è creare un’orchestra per fare concerti. Provavamo a Marylebone High Street, così abbiamo chiamato questo ensemble M.H.S.. Se ci ripenso, trovo che per me l’orchestra è sempre connessa con l’idea di essere fra amici, e condividere qualcosa. Anche questo è un imprinting fiesolano, credo.
L’ultimo anno alla Royal Academy (2014) sono stata scelta per rappresentare l’istituzione al Festival Internacional de Inverno de Campos do Jordão, uno dei massimi appuntamenti per la musica classica in America Latina.
Così, subito dopo la laurea sono partita subito per il Brasile, invitata con altri giovani direttori provenienti dalle principali accademie del mondo, tra cui la Julliard School di New York.

Un’altra opportunità speciale, ed anche un riconoscimento per il lavoro fatto fino a quel momento
Infatti è stata un’esperienza fantastica, con sviluppi imprevedibili. Il format del festival prevedeva tre settimane di lezione con Marin Alsop – una grande e generosa musicista, all’epoca direttore musicale della San Paolo Symphony Orchestra – e la possibilità di vincere un premio per il miglior allievo.
Ho vinto questo premio, che consisteva nell’invito ad essere per un mese direttore assistente alla San Paolo Symphony. Così nel marzo 2015 sono tornata in Brasile, e ho iniziato a svolgere il ruolo di assistente presso questa orchestra megagalattica, che suona in una sala meravigliosa ed imponente: due prove per inaugurare la stagione con la Quinta di Mahler!!!

Un inizio adrenalinico, per il tuo mese a San Paolo
L’adrenalina è rimasta in circolo! Il mio compito era preparare l’orchestra ed assistere ai concerti, pronta in caso di necessità a sostituire il direttore; dovevo quindi studiare il repertorio in programma, che cambiava ogni settimana, e dirigere i concerti che loro chiamano “per il marketing”, come le matinée domenicali ed i family concerts.
Alla fine del mese, mentre ascoltavo la prova generale dell’ultimo concerto, il direttore artistico mi chiese di potermi parlare, perché c’era un imprevisto: il direttore della settimana successiva si era rotto un polso e non avrebbe potuto tenere il concerto, perciò la richiesta era che fossi io a dirigere la produzione. Ho creduto di morire anche perché, dovendo partire, non avevo preparato quel repertorio.

Non avrai rifiutato…
Ho accettato, anche se spaventatissima, con qualche modifica di programma: ho diretto Young person’s guide to the orchestra di Britten ed il Concerto per tromba e orchestra di Mark-Anthony Turnage, con l’emozione ulteriore di dirigere un grande trombettista come Håkan Hardenberger. Nella seconda parte tutto Ravel, con Ma mère l’Oye e La Valse.
È stato un successo, così mi hanno richiamato più volte, e l’anno seguente mi sono trasferita in Brasile, quando la San Paolo Symphony ha aperto per me la posizione di direttore assistente. Poi sono diventata direttore in residence, e così ho avuto molte occasioni per dirigere.

Ti è stata offerta una chance di crescita davvero fantastica
Proprio così, anche grazie al supporto della Taki Concordia Conducting Fellowship, che ho vinto nel 2015. Con questa borsa di studio, che Marin Alsop mette ogni due anni a disposizione di una giovane direttrice d’orchestra, ho ricevuto oltre all’aiuto finanziario preziosi consigli su come affrontare la professione.
Intanto sono stata nominata direttore principale del Coro Sinfonico di Stato di San Paolo, uno dei migliori cori dell’America Latina, con cui ho lavorato fino al dicembre scorso e registrato un originale cd per Naxos, che contiene trascrizioni di Heitor Villa-Lobos per coro a cappella di musiche pianistiche di Chopin, Schumann, Bach. Una vera sfida, la scrittura pianistica realizzata dal coro!
Fortunatamente ho avuto anche la possibilità di misurarmi col teatro, grazie alla nomina come direttore musicale del Teatro San Pedro, un teatro d’opera della città di San Paolo, ma il desiderio di fare l’opera in Europa restava in me molto forte.
Il Brasile mi ha dato moltissimo, compresi importanti riconoscimenti come il Premio APCA (dell’Associação Paulista de Críticos de Artes) e un altro premio come miglior direttore del 2018.

La tua attività si è svolta soltanto in Brasile, in questi anni?
No, in realtà ho sempre viaggiato, dirigendo in vari paesi, compresa l’Italia (al Teatro Verdi di Trieste), in Svezia, negli Stati Uniti dove ho guidato la Baltimore Symphony Orchestra.
Nel 2018 ho vinto un posto alla English National Opera, dopo aver presentato la mia candidatura e fatto un periodo di prova (una cosa che in Italia purtroppo non esiste…).
Così mi sono trasferita a Londra, mantenendo a San Paolo solo la direzione del Coro di Stato.
Al London Coliseum ho diretto grandi produzioni, tra cui venti recite di Carmen, poi La bohème, Akhnaten di Philip Glass, Dido and Aeneas di Purcell, Orfeo agli inferi di Offenbach…

Quindi è da Londra, che sei rientrata a Firenze a causa del covid?
Quando è successo tutto questo, in realtà mi trovavo negli Stati Uniti, precisamente in Virginia, per le audizioni conclusive della Richmond Symphony.
Il processo di selezione era iniziato due anni fa, con candidati da tutto il mondo; alla fine siamo stati invitati in cinque, per due settimane ognuno, con il compito di preparare un programma per grande organico ed uno più ridotto con orchestra e balletto. Abbiamo tenuto solo due concerti, a causa del virus, e il candidato che avrebbe dovuto arrivare dopo di me non ha neppure potuto presentarsi, per la chiusura delle frontiere. Così, al termine della mia prova, la commissione si è riunita e mi ha scelto per il posto di direttore musicale.
Intanto però sono tornata a Londra; dopo un paio di settimane mi sono resa conto che in Inghilterra non c’era una reale consapevolezza dei rischi dell’epidemia, così sono venuta a Firenze.

Com’è stare a casa, in famiglia, dopo tante avventure e soprattutto con la mente protesa verso i prossimi impegni?
Molto strano, anche perché non sono solo a casa, ma finora proprio “chiusa” in casa.
Comunque a Firenze sto bene, e grazie alla tecnologia riesco a mantenere i contatti con tanti amici in tutto il mondo.
Sto leggendo i classici: l’Odissea, l’Inferno di Dante… e studio il francese. Ogni tanto apro delle partiture delle opere che dovrei dirigere, ma trovo difficile ascoltare musica in questo momento, mi mette a disagio.
Ci sono state tante cancellazioni: avrei dovuto debuttare qui a Firenze con l’Orchestra della Toscana, avevo la BBC Scottish, un progetto con una commissione per un nuovo pezzo (già realizzato e studiato), i BBC Singers, un tour con l’Orchestra della Fondazione Gulbenkian di Lisbona, dovevo tornare in America Latina per il lancio del cd. È demoralizzante studiare in questa incertezza.

D’altra parte non ci sono alternative, e il fatto che si tratti di una pandemia mette tutti nelle stesse condizioni
Proprio così, e chi ha scelto di non adeguarsi ha pagato un prezzo altissimo. Ad Amsterdam hanno deciso di non annullare il concerto di Pasqua, ed eseguito la Passione secondo Matteo: si sono ammalati tutti, e due musicisti non ce l’hanno fatta.
Anch’io ho perso colleghi e amici, tra cui l’attuale direttrice del Coro Sinfonico di Stato del Brasile.

In questa situazione di dolore ed incertezza, hai visto una diversa maniera di immaginare la ripartenza nei vari paesi?
C’è un grande smarrimento… La League of american orchestras fa conferenze online affrontando i tanti problemi, soprattutto per gli strumenti a fiato e per i cantanti.
A Londra si farà l’opera in modalità drive in: sul palco ci saranno i cantanti, e l’orchestra da qualche altra parte. Il suono arriverà tramite l’impianto stereo della macchina.
Le soluzioni sono le più disparate (e disperate). Nessuno sa niente, e anche la circolazione degli artisti internazionali è un grosso problema: se arrivi in un paese straniero e devi stare in quarantena per due settimane, come puoi lavorare? Spero che ne usciremo presto…

Il momento è veramente drammatico, ma dobbiamo confidare nelle possibilità della scienza, e abbiamo il dovere dell’ottimismo, non credi?
Tornando a te: dopo tutte queste esperienze cosmopolite, cosa senti di portare con te della formazione ricevuta alla Scuola?
Ci sono almeno tre cose fondamentali che porto con me dagli anni della Scuola.
Senza dubbio a Fiesole ho imparato ad ascoltare, con un approccio che vale per qualsiasi strumento e compagine: il mio modo di ascoltare viene dalla musica da camera, dall’abitudine di mettere in rapporto gli strumenti tra loro. Del resto ricordo di aver assistito ad una prova di Claudio Abbado, che ripeteva come fosse assurdo pensare astrattamente a un troppo forte, o troppo piano…questo vale solo in relazione alla voce che desideri far emergere, o alla trama che stai tessendo.
Grazie alle lezioni di Enrico Stellini ho imparato a curare il suono, una cosa che adesso, lavorando con l’orchestra, è fondamentale. Ricordo ancora che preparavo con lui il diploma, e nel mio programma c’era la Sonatina di Ravel, un autore che amo moltissimo. Andavo a lezione da lui, durante le vacanze estive. Nel gran caldo, con l’asciugamano sul panchetto, il maestro mi insegnava a trovare la giusta qualità del suono, che creasse un’atmosfera speciale. Allora era molto difficile per me capire cosa volesse, ma piano piano ci sto arrivando.

E la terza cosa che hai appreso alla Scuola?
Di sicuro il senso del respiro: da Joan Yakkey, che è stata per me molto importante. Nonostante fossi ancora piccola, accanto a lei ho capito cosa significhi cercare ed insegnare una vocalità corale, che è cosa ben diversa dal mettere insieme tante persone che cantano.
Vedere come lavoravano lei e poi Fabio Lombardo è stato per me un grande insegnamento.

Un’ultima, canonica domanda, a proposito della direzione al femminile… Come ti poni?
Gestisco la cosa nel modo più naturale. Dirigere è una professione difficile, per uomini e donne: ci sono solo buoni e cattivi direttori. Chiaramente è importante essere determinati e sapere cosa si vuol fare, porsi in un atteggiamento di guida, ma anche essere umili (i musicisti che dirigi hanno spesso più esperienza di te) e arrivare preparati, non essere arroganti ma in ascolto. Siamo lì per fare musica, e sul podio si ha una responsabilità. Tutto funziona quando metti in condizione i tuoi colleghi di dare il meglio, perciò è indispensabile aver chiaro quale risultato stiamo cercando, ma soprattutto riuscire a far respirare tutti insieme.
È sempre una questione di alchimia, e quando si crea l’empatia il miracolo della musica accade.

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