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14 Settembre 2015

Musicisti e scrittori

In questo tempo di popoli in cammino per sofferti spostamenti, siamo lieti che anche gli studenti di musica riflettano su quanto accade; pubblichiamo perciò un breve racconto che ci invia il giovane violinista Francesco Zecchi, allievo della Scuola.

AL 143 RIDE AAMANI
di Francesco Zecchi

La nostra casa in Ciad era molto semplice. Abitavamo su una collina e da lì tutti i giorni Aamani ed io guardavamo l’alba e il tramonto insieme. Era il momento più bello della giornata, quando giocavamo e parlavamo, sotto quell’infinità di sfumature di colori.
Un giorno Aamani mi chiese:
“Rashid, perchè noi non possiamo volare?”
Le dissi: “Sorella, sai che la natura ha creato ogni essere vivente con diverse abilità. Gli uccelli possono volare, l’uomo no.”
” E allora l’uomo quale abilità ha?”

Piccola Aamani, in tutta la sua vita ha avuto sempre un solo desiderio, quello di volare. Avrebbe voluto volare come un uccello per riuscire a toccare quel cielo che aveva sempre ammirato.
Le risposi dicendo ciò che in quel momento credevo: l’uomo è stato creato per amare la natura e tutte le sue creature. Solo più tardi mi resi conto d’aver detto la più grande menzogna della mia vita.
La guerra era appena iniziata. Mi mancavano solo pochi esami alla laurea. Una notte la mia università venne distrutta. Una bomba l’aveva fatta sparire.
Una mattina, mentre stavo tornando a casa, in lontananza si sentivano spari ed esplosioni. Avevo paura. Correvo, quando ad un certo punto vidi due militari che stavano picchiando una donna. Ero pietrificato dall’orrore. Non riuscivo a muovermi, non credevo che una scena del genere mi avrebbe creato una tale reazione. Purtroppo ero abituato a vedere certe violenze. Guardavo la donna e i due uomini che la spintonavano e la prendevano a calci. Quando si accorsero di me, la lasciarono perdere. Lei cadde, in quel momento i nostri sguardi si incrociarono. Era la donna più bella che avessi mai visto. Aveva gli occhi pieni di lacrime e la faccia piena di polvere, ma si riusciva ad intravedere la sua bellezza. Non riuscii a fare nulla. Forse avrei dovuto aiutarla o forse sarei dovuto scappare.
I due soldati vennero verso di me. Uno mi diede un colpo in testa col fucile. Caddi a terra e persi i sensi.
Mi svegliai per l’esplosione di una bomba. Era caduta poco distante da dove mi trovavo. Ero ancora stordito quando mi alzai. Nell’aria c’era la polvere sollevata dall’esplosione. Era notte. Mi alzai e mi resi conto di non aver più nulla, né la borsa con i miei libri, né i soldi né i documenti: mi avevano preso tutto. I due soldati non c’erano più. Mi girai. A terra a pochi metri da me, c’era il corpo senza vita di quella donna. Era senza vestiti. Mi avvicinai e la sollevai, volevo spostare il suo corpo dalla strada. Il suo viso quasi non si riconosceva più, ricoperto di sangue e polvere. Le piaghe sul volto e sul corpo erano numerose. Non potei fare altro che spostarla in un campo vicino. Era molto tardi. Il sole era sceso da tempo. Corsi a casa da mio padre e Aamani. Mancavano ancora un paio di isolati e le case che mi circondavano mi davano sempre più l’impressione che fosse successo qualcosa di terribile. La bomba di poco prima era cascata proprio lì. Davanti a me la desolazione, macerie su macerie. “Dov’è casa mia?!” urlai. Non sapevo più dove mi trovavo, intorno a me nessuno. La mia casa non c’era più. Tutti i palazzi erano diventati una massa di macerie. Non poteva essere vero. Cercavo di convincermi che mio padre e mia sorella erano ancora vivi. Non poteva essere vero, non potevano essere morti anche loro. Non era giusto.
È passato un anno da quell’esplosione. Un anno dalla mia partenza verso l’Italia per scappare dalla guerra. Un anno dalla scomparsa di mio padre e della piccola Aamani. Mia sorella aveva solo 13 anni. Oggi sarebbe stato il suo 14esimo compleanno. Sorellina! Mi manca il tuo sorriso. Mi manca la tua voce. Mi mancano le tue mani. In lei ho sempre visto nostra madre, Karima. Aamani fu partorita nell’ospedale di N’Djamena. Nostra madre soffrì molto e morì durante il parto. Aamani le somigliava moltissimo, come se fosse stata la sua reincarnazione.
Nostra madre era una donna meravigliosa, sempre sorridente, avrebbe fatto qualsiasi cosa per noi. Mio padre l’amava più di ogni altra cosa al mondo. Dopo la sua morte voleva morire anche lui, ma l’amore per Aamani gli ridonò la voglia di vivere.

Sono passati cinque giorni da quando i trafficanti si sono fermati per la terza tappa. Io e altri trenta abitanti del Ciad siamo bloccati qui, tra la nostra terra e la Libia. Siamo partiti in settantacinque. Alcuni di noi sono morti per la sete, altri sono cascati dal camion durante il viaggio. Se uno cade è morto. Nessuno lo aspetta e tanto meno lo aiuta. É stata una lunga traversata. Nel camion si respirava a fatica. L’odore era nauseante. Il puzzo di carburante e di sudore era cosi forte che saliva fino al cervello. Si rischiava di svenire. Eravamo incastrati uno nell’altro come tessere di un puzzle, posizione che non permette alcun tipo di movimento.
Intorno, chi sveniva, chi vomitava, chi non resisteva più ed era costretto a pisciarsi addosso o peggio. L’odore si faceva sempre più intollerabile.
L’acqua era poca. Bisognava fare attenzione. Quella disponibile era l’unica dose che spettava a ciascuno. Se uno faceva storie o chiedeva un altro sorso i trafficanti lo buttavano giù dal camion lasciandolo nel deserto, pasto per i condor. Alcuni miei compagni si sono fermati alla 1ª tappa altri alla 2ª. Non avevano abbastanza soldi per pagare il viaggio. Alla partenza, i trafficanti prendevano i soldi e ci lasciavano solo una busta di plastica con le cose personali, nient’altro. Lo spazio era prezioso.
Ad ogni tappa chiedevano altri soldi. Se li ottenevano ripartivano, altrimenti si fermavano li. Più vai avanti, più ti privano dei pochi averi che hai.

Il camion era pronto. Si ripartiva. Ci dicevano che non ci saremmo fermati più fino a Tripoli. Finalmente. Ci siamo quasi. Al porto di Tripoli avremmo preso una barca che ci avrebbe portati a Lampedusa, da lì avremmo dovuto farcela da soli.
Ormai nel cassone del camion eravamo di più. Altri si erano aggiunti al viaggio: libanesi, anch’essi in fuga dalla morte, in fuga dalla loro terra.

I trafficanti ci dicevano che in meno di due ore saremmo arrivati a Tripoli. Finalmente era finito quel viaggio terribile. Appena scesi dal cassone scoppiai a piangere, pensando a tutti coloro che non ce l’avevano fatta.
Nel nostro camion le vittime toccavano la cinquantina, ma chissà quanti tra quelli partiti erano arrivati e quanti sarebbero giunti dopo. Ci vennero incontro due uomini bianchi. Ci presero i soldi e ci chiusero in un enorme garage che dava sul mare. Mi affacciai alla finestra e guardai l’orizzonte. Era il tramonto. Non riuscivo a non ricordare Aamani.

Ci dettero mezza bottiglia d’acqua a testa, un pezzo di pane e un lenzuolo. Ci dissero che avremmo dovuto passare qui la notte, la barca aveva avuto un guasto al motore. Non saremmo partiti prima delle 6 del mattino.
Durante la notte non riuscii a chiudere occhio. Le scene del viaggio riaffioravano inevitabilmente. Il buio della notte fece luce su tutti gli orrori passati.

Ricordo ancora ogni singola faccia che ho visto sul camion; bambini, donne, uomini e anziani.
Durante la notte il garage si riempì, erano arrivati altri tre o quattro camion.
Mi alzai all’alba e capii che erano già passate le cinque. Mi guardai intorno. Ero circondato da corpi distesi per terra nella vana ricerca di dimenticare ciò che avevano passato. Mi girai e vidi che in fondo alla sala c’era una ragazzina che piangeva. La guardai bene.
Non potevo credere ai miei occhi.
“Aamani! Aamani! Sono Rashid, sono qui. Aamani!” Era lei!
Non era morta. Me lo sentivo. Provai a correre facendomi largo tra le persone. Avevo gli occhi pieni di lacrime. Non potevo crederci. La mia Aamani era viva. Come era arrivata fino a Tripoli? Finalmente la raggiunsi. La presi in braccio e cominciai a stringerla forte e a baciarla. Com’ero felice! La guardai negli occhi e vidi che piangeva. Non aveva più un bel sorriso. Era molto più magra. Mi asciugai le lacrime di felicità.
La guardai di nuovo e mi resi conto che quella ragazzina non era Aamani. “Eppure io l’ho vista” pensai, “Era qui, la tenevo tra le mie braccia.”
Ero convinto di ciò che avevo visto, ma quella ragazza non era la mia sorellina. Era stata un’allucinazione.
La mia Aamani non c’era più. La mia Aamani era tornata dalla mamma.

Come se non bastasse, oltre alla fame, alla sete e al corpo devastato si aggiungevano ora altre allucinazioni alla mia sofferenza.
Stremato mi diressi con gli altri al barcone. Lo vedemmo attraccato in porto, quasi un relitto che galleggiava per miracolo.
Ci spinsero dentro e si ripartì. Stessa situazione del camion. Incastrati uno con l’altro, ma in più c’erano le onde che scuotevano la barca. Molti soffrivano il mal di mare. La puzza di vomito era allucinante. Un ragazzino piangeva. La madre lo supplicava di tacere, ma era troppo piccolo, anche se già vittima di un simile inferno. Alcuni erano allo stremo. Altri urlavano in preda ad attacchi di panico. I trafficanti con poco scrupolo ne presero due e li gettarono in mare. Nessuno fece più rumore. Nessuno apriva bocca, neanche per respirare.
Cinque ore dopo attraccammo al porto di Lampedusa, “accolti” da tute bianche anti-contagio. Insieme a loro poliziotti e una folla di gente con striscioni e cartelli con le scritte:- TORNATE A CASA! – NON VI VOGLIAMO!
Nel vedere questo ripensai a quando avevo detto ad Aamani che l’uomo è stato creato per amare la natura e le sue creature. Noi arrivavamo con donne e bambini a chiedere aiuto e loro ci volevano rimandare indietro, ignari del fatto che amiamo la nostra terra più di quanto loro amino la propria.

Venimmo divisi in gruppi di venti persone e portati nei “CENTRI D’ACCOGLIENZA”. Entrammo in fila. Davanti a noi una donna con la stessa tuta bianca anti-contagio seduta ad un tavolo con una penna e un libro. Ad ognuno di noi diede un numero. A me toccò il 422. Accanto a lei un’altra con la stessa divisa e lo stesso sguardo di disgusto mi dette una coperta. Entrambe ci osservavano con lo sguardo che avevano per tutti gli arrivati. Mentre avanzavo vidi un cartellone enorme con foto di immigrati come me e il loro numero.
Detti un’occhiata qua e là. Vidi solo la grande quantità di persone arrivate qui.
Ciadesi, libanesi, senegalesi, nigeriani tutti raggruppati come bestie in “gabbia”. Rinchiusi qui da coloro che si erano autoproclamati superiori, senza meriti né poteri.
Sono vivo e sono qui. Sono stanco e prima di andare a cercare un posto in cui dormire butto un’altra occhiata al cartellone. Quasi non mi accorgo che c’è una foto di una ragazzina che fa la cosa che le riesce meglio.
Al numero 143 una ragazzina sorride.
Al 143 mi scende una lacrima.
Al 143 ride Aamani.
Al 143 rinasce la speranza.

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