Facebook
23 Ottobre 2018

Insegnare, apprendere, diffondere

 

Sandro Cappelletto mi ha voluto coinvolgere in questa importante realizzazione della Treccani affidandomi, con questo titolo, un campo molto ampio. Il volume è ricco di saggi di altissimo livello che chiariscono bene la perdurante centralità dei processi mentali che prendono vita nel nostro Paese e che si traducono in realizzazioni che il mondo continua ad invidiarci. L’ambito che mi è stato indicato era fin dall’inizio troppo vasto, ma a me piace sapere che vi sono cose che comportano una certa percentuale di errore nonostante la quale ciò che hai detto e fatto continuerà, per qualche tempo, ad avere una sua validità. C’è una frase di Hemingway che ha condizionato tutta la mia vita: In going where you have to go, and doing what you have to do, and seeing what you have to see, you dull and blunt the instrument you write with. But I would rather have it bent and dulled and know I had to put it on the grindstone again and hammer it. Come lui, immodestamente, preferisco avere uno strumento di scrittura storto e spuntato, ma sapere che ho qualcosa da scrivere, piuttosto che rimanere in silenzio per paura di sbagliare soprattutto quando l’andamento della Storia ti chiama a parlare.

Quella umana è una dimensione in costante, vitale, aggiustamento. Si nasce nell’illusione di fare cose perfette, ma, se si è operato bene, ce ne andiamo con la serenità di aver commesso errori che hanno avuto un senso.

Nel tentativo non facile di ricucire l’aspetto pedagogico a quello della diffusione, mi ha ispirato una bella frase di Bernstein “When I teach I learn and when I learn I teach”. Apprendere è insegnare a se stessi e insegnare agli altri ti permette di capire cose nuove e di apprenderne da loro. Bernstein è stato un esempio per tutti, nel mondo “moderno” dei grandi pedagogisti come Dewey. Il cammino del nostro Paese non ha potuto godere di quella linearità di sviluppo che ha caratterizzato la pedagogia anglosassone, avendo sofferto delle conseguenze del Ventennio Fascista, il cui effetto non si è affatto limitato agli aspetti politici o militari, ma ha devastato un mondo di idee e processi culturali che non possono sopravvivere privi di libertà. La rinascita dalle macerie di quel disastro ha avuto, a mio parere, origini legate piuttosto alla interpretazione musicale, alla vitalità degli interpreti e dei compositori dal cui rigore e, insieme, aspirazione alla libertà espressiva è germogliato un terreno capace di accogliere l’eredità della Montessori.

Mi piacerebbe molto che il mio contributo permettesse di mettere in rilievo quanto la Montessori fosse convinta che nella educazione alla pratica musicale risiedessero quasi tutte le risposte ai problemi di sviluppo dell’intelligenza dell’essere umano. Aveva trovato in una giovane ragazza, Annamaria Maccheroni, una collaboratrice intelligente e capace di tradurre in pratica le comuni convinzioni educative. C’è un formidabile lavoro della Maccheroni in cui espone concetti di apprendimento musicale dai quali hanno preso il via sistemi avanzatissimi di insegnamento strumentale come il Suzuki (per ammissione del fondatore stesso), il Rolland, il Coloured Strings ugrofinnico e tanti tanti altri. Del volume esistevano tre copie in Italia, ma adesso qualcuno ne ha rubata una e così sono riuscito solo ad avere fotocopia di una delle due superstiti.

Credo che questa vera e propria rimozione del contributo della Maccheroni e della centralità della musica nel pensiero montessoriano non sia una cosa di cui stupirsi, anzi.

La musica è una modalità di comunicazione molto libera e non facilmente imbrigliabile. La musica, per di più ha svolto un compito più o meno dichiarato, una funzione di cui, solo negli ultimi cento anni, si è fatta carico la psicoanalisi, permettendo all’essere umano di conoscere i suoi pensieri più profondi ed inconfessabili. Non che siano mancati filosofi e pensatori che non abbiano stigmatizzato in modo negativo la pratica musicale, ma fino a che è rimasta relegata ad un gruppo di specialisti non ha rappresentato un vero pericolo. Da quando viene indicata come uno dei mezzi attraverso il quale l’essere umano si emancipa dalle sue paure per compiere un cammino verso la libertà è entrata nel mirino di chi non ha in grande simpatia la libertà di pensiero. La centralità della pratica musicale nello sviluppo dell’essere umano è certamente il risultato delle conquiste delle neuroscienze a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, anche grazie agli sviluppi della pedagogia generale. Ma che la pratica della musica e della musica d’insieme sia la chiave di questo processo e non più solo l’ascolto o la comprensione teorica, è il risultato di contributi altri. L’interprete moderno ha dovuto confrontarsi con una interpretazione musicale non più legata all’istinto o alle emozioni, ma piuttosto con una complessa impresa semiologica, la più complessa affidata ad un essere umano. La molteplicità delle indicazioni nella pagina musicale i continui rimandi ad ambiti culturali complessi e talvolta lontanissimi ne fanno un’Arte tra le più interlacciate con gli altri ambiti. I musicisti si sono sempre dovuti porre il problema della relazione tra forma e libertà. Quando Vivaldi scrive le “Stagioni” le chiama il Cimento della Armonia e dell’Invenzione, laddove per Armonia indica le regole che governano la scrittura musicale. Nel Dopoguerra, poi, una serie di pulsioni represse ha sviluppato una intera generazione di interpreti che ha dovuto apprendere nuove chiavi di lettura ripartendo dalla asciutta lettura antiretorica di Toscanini piuttosto che dalle profezie inascoltate di Busoni. Penso naturalmente al Trio di Trieste e al Quartetto Italiano, ma anche a tanti altri artisti straordinari. La rilettura del testo musicale che ne è scaturita è stata indubbiamente comparabile a processi analoghi nel campo delle arti visive, della pittura, dell’architettura e, a maggior ragione, in campo storiografico. È da questo infaticabile confronto tra fedeltà al testo e libertà interpretativa che nasce, come per una mutazione antropologica un musicista nuovo, calato nel sociale e nel suo tempo che avverte, quantomeno, la necessità di munirsi di mezzi pedagogici innovativi capaci di trasmettere i nuovi significati. È questa la radice forte del celebre convegno del 1966 da cui, otto anni più tardi, prendeva il via la Scuola di Musica. Come ha detto Bernstein, non vi può essere una esecuzione che non abbia anche un significato didattico e l’attività didattica non ha senso se non sfocia in una realizzazione musicale pratica, se possibile insieme ad altri. È nella musica d’insieme che le intelligenze multiple, come ci viene suggerito dal loro maggior teorico Howard Gardner, trovano tutte le possibili applicazioni. Empatia, intelligenza intrapersonale, motivazione, determinazione, sacrificio di sé, tutto questo nella musica.

È proprio in questo snodo che la Scuola di Fiesole, con grande anticipo rispetto a queste teorie inizia ad agire, ed agisce animata dai significati più intimi della musica d’insieme. La Scuola è nata all’interno di un processo culturale, quello fiesolano degli anni ‘60 e ‘70, che non ha più avuto uguali nella società italiana e che resta un modello da capire e riproporre. Viviamo in un momento storico in cui le giovani generazioni conoscono poco o niente della storia, soprattutto di quella che li ha immediatamente preceduti e non riescono ad orientarsi. Magari conoscono bene le guerre puniche ma non sanno nulla della strage di Piazza Fontana o delle Brigate Rosse. Non c’è, nelle nuove generazioni sufficiente coscienza delle provenienze e dei processi che ci hanno condotto fin qui. I miei allievi cinesi cui chiedo spiegazioni sul loro Paese guardano per terra e dicono di non occuparsi di politica. Un mio allievo che mi rispondeva così e che è diventato prima viola di una importante orchestra, una volta mi scrisse che voleva la mia firma per una petizione in favore dell’Orchestra che navigava in cattive acque. Nel firmare gli dissi che anche se uno non si occupa di Politica, prima o poi la Politica si occupa di te. Non bisogna avvertire la Storia, specie quella cui si appartiene, come un peso immobilizzante. La neuropsichiatria, infatti, non conosce solo aspetti positivi e immuni da interpretazioni “!politiche”. I neurodeterministi, per esempio, ci dicono che il libero arbitrio, in realtà non esiste e che i nostri cervelli “primitivi ed inconsci” ci condizionano, decidono per noi, ci fanno credere che stiamo decidendo, ma che in realtà la nostra vita è determinata in un modo che non lascia nessuno spazio alle nostre speranze più intime. Come si vede neppure le neonate neuroscienze sono uno spazio neutrale e innocente. Personalmente credo ancora che, al netto delle scoperte affascinanti della Scienza, l’essere umano sia ancora quello di Dante, il cui inno al libero arbitrio è però legato alla conoscenza, alla consapevolezza dei processi. Nella visione di Piero la Scuola è la palestra nella quale il musicista contemporaneo ha traslato l’addestramento allo strumento in una sofisticata forma educativa. Un musicista colto e consapevole del suo ruolo intellettuale ancora da realizzarsi compiutamente, forse, che deve imparare a difendere in prima persona il suo spazio. Se è vero che insegnare musica non è più impartire delle nozioni per una semplice abilità su uno strumento, se è vero che il musicista rivendica a pieno titolo un suo riconoscimento come educatore e come intellettuale, allora è anche giunto il momento di caricarsi di questo ruolo, di conoscerne gli aspetti più faticosi e di innovarsi profondamente per essere al passo con il nostro tempo. Questo spiega il perché della centralità del musicista nei processi decisionali della Scuola. Il percorso della Scuola è, in realtà, ancora in itinere e si sviluppa anche attraverso le nuove generazioni in modo piuttosto vulcanico. Il libro che ho scritto ormai più di dieci anni fa ha compiuto un suo viaggio. Nella sua stesura l’esperienza fiesolana ha pesato molto. Vi sono confluite molte delle cose che la Scuola mi ha permesso di sperimentare consentendomi di sviluppare alcuni temi che sono poi diventati centrali negli ultimi anni. Immodestamente sento di aver avuto un ruolo, almeno indiretto, nella formazione di alcuni musicisti, e con gioia posso dire che quasi tutti hanno poi compiuto un loro percorso originale rendendo la Scuola un organismo di ricerca ricco e vitale.

In una splendida poesia Mario Luzi ha detto:
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti…

Anche il compito della Scuola di Fiesole non si esaurisce con il contributo di una o più persone. Ed è per questo che con i vertici della Scuola abbiamo voluto dare il via ad un Dipartimento della Ricerca e dello Sviluppo. Si tratta di un vero e proprio Comitato Scientifico di cui fanno parte Nicoletta Berardi, Michele Biasuttti, Ugo Faraguna, Flora Gagliardi, Anna Modesti, Pierluigi Postacchini e Rita Urbani. Un cocktail di amici della Scuola che hanno svolto sull’esperienza musicale una riflessione di altissimo livello. Occorre riflettere su quali sono le pratiche virtuose dell’insegnamento musicale senza nascondersi dietro un buonismo un po’ datato che copre insuccessi o carenze di un sistema didattico in cui continua a pesare troppo il senso della tradizione e delle scuole di appartenenza. Le ultime esperienze che mi hanno portato al Royal College of Music a Londra mi stanno aprendo nuovi orizzonti in un ambiente molto, molto lontano dall’esperienza fiesolana, e parte delle mie convinzioni è messa a dura prova. Posso però dire, ragionevolmente, di essere stato tra i primi a vedere il nesso tra le scoperte delle neuroscienze e la didattica di ogni giorno. Molto, troppo di ciò che si insegna ha modalità lontane dalle funzioni del cervello e della mente così come cominciamo ad averne coscienza. La Scuola è stata ed è ancora per molti di noi parte stessa della nostra emotività. Ciascuno è portato a riporre in essa le cose più belle ed ideali che ha in sé, o, alternativamente, a provare reazioni di disamore. Mai indifferenza. Chi crede di poter descrivere una parabola discendente di questa istituzione in mancanza del suo fondatore indimenticabile, non comprende che la creatura di Piero ha le gambe per potersi sviluppare in futuro per una esigenza che viene dalla Storia stessa del Paese e non per l’opera di un singolo. Questa è la sua vera grandezza. E questo significa anche che non sempre ciò che si realizza corrisponde in tutto o anche solo in parte a ciò che si vorrebbe. Ma, una volta che se ne sia riconosciuta la necessità storica, perché questo “giocattolo” continui a vivere occorre che chi vi trascorre parte o, come me, gran parte della sua vita abbia il rispetto che occorre portare quando si è “ospiti” in un luogo che non è di proprietà di nessuno, un fragile ecosistema da riconsegnare ai figli dei figli.

Ultime notizie della Scuola di Musica di Fiesole