Il Dipartimento Jazz ha recentemente ricevuto l’autorizzazione del MIUR ad erogare da quest’anno i corsi di Triennio per l’ottenimento del Diploma AFAM di I livello. Un grande risultato, ed un riconoscimento della qualità dei nuovi corsi fiesolani, della cui organizzazione si è fatto carico fin dall’inizio Antonino Siringo, coordinatore ed anima di questo progetto.
La notizia dell’accreditamento del Triennio è stata lo spunto per incontrare Antonino, poliedrico artista la cui passione musicale è alimentata da una insaziabile curiosità e dal desiderio di esprimersi in tutte le lingue della musica.
Il tuo nome non “suona” toscano
Infatti sono nato a Siracusa da genitori siciliani, e da bambino mi sono trasferito con loro a Genova; avevo già iniziato gli studi musicali in Sicilia, e nel capoluogo ligure ho frequentato per tre anni il Conservatorio “Paganini”, finché l’incontro felicissimo con Lucia Passaglia non mi ha portato intorno ai 14 anni a Firenze. Desideravo molto studiare con lei, e così i miei genitori mi hanno accontentato, permettendomi di viaggiare in autonomia: a Firenze ero ospite di amici e molto spesso della mia insegnante, per la quale sono stato come un figlio. Mi sono diplomato con lei a 19 anni al Conservatorio “Cherubini”.
Quindi la tua formazione è stata essenzialmente classica?
Proprio così. Ma sono sempre stato un onnivoro ricercatore culturale, e la mia storia di improvvisatore ha radici nell’infanzia: ho iniziato a improvvisare e a scrivere fin da subito, a sette anni, ed ho continuato a farlo quotidianamente, con i mezzi che via via acquisivo studiando musica.
Hai conservato questo materiale?
Non l’ho fatto, purtroppo… avevo quintali di carta, e la mia stanza era praticamente invasa dai fogli. Così man mano che procedevo gettavo le cose vecchie per fare spazio.
Mostravi i tuoi lavori agli insegnanti?
I miei insegnanti sapevano: non hanno incoraggiato particolarmente questo mio approccio, ma non l’hanno neanche impedito. D’altra parte, se ancora oggi abbiamo delle riserve riguardo a stili musicali diversi, improvvisazione ecc., figuriamoci com’era la situazione di quasi trent’anni fa!
Quindi hai coltivato questa componente in totale autonomia?
Fino ai 16 anni, poi ho cominciato a frequentare con una certa regolarità compositori e jazzisti. Andavo a Milano anche solo per trovare nella biblioteca del Conservatorio le musiche che mi interessavano, e che fotocopiavo senza risparmio. All’epoca anche reperire il materiale richiedeva un impegno diretto.
Eri interessato anche alla musica contemporanea cosiddetta d’avanguardia?
Moltissimo: la mia passione per la musica contemporanea è nata molto presto, e ricordo che a 14-15 anni ascoltavo regolarmente John Cage, Morton Feldman e molti altri ancora…
Ma devo dire che tutto quello che esulava dalla musica classica l’ho trovato cercando da solo.
Andavo ai concerti, o bussavo alle porte delle classi di composizione. Ho conosciuto Sandro Gorli, Rotondi e Danieli che insegnavano al Conservatorio di Milano. Inoltre la mia prima moglie, che ho sposato a 21 anni…
???
…era una compositrice e studiava lì. Così, accompagnandola, avevo la possibilità di fare le mie domande.
Nel frattempo ero arrivato al diploma di pianoforte, che presi a 19 anni con lode, menzione e bacio accademico.
A quel punto la mia strada era segnata: concorsi, concerti e la prospettiva di un’attività di pianista classico.
E invece?
Amavo la musica classica, ma avevo forti tendenze verso la sperimentazione, ed altri lidi culturali e musicali. Coltivarli a fondo mi veniva di fatto impedito, perché sia la famiglia che gli insegnanti spingevano nell’altra direzione.
Sentivo invece l’esigenza di portare avanti una formazione extraclassica: volevo sapere di più e studiare di più. Avevo fatto (e vinto) diversi concorsi, ma questa forma di competitività non mi piaceva affatto. Oltre all’ansia generata dal meccanismo di selezione, finivo per non essere felice nemmeno se le cose andavano bene, perché mi sentivo in colpa, mi dispiaceva per gli altri.
Così poco dopo il diploma salutai la mia insegnante e sparii dalla circolazione per quasi cinque anni.
Una vera fuga, direi
Proprio così: ho smesso di suonare e ho cominciato a fare lavoretti vari, dal lavapiatti al letturista dell’Enel, fino alle pulizie nei grandi magazzini…
Nel frattempo mi ero iscritto ad un corso di teologia, per seguire i miei interessi spirituali.
Non avevo mire particolari, ma solo bisogno di approfondire alcuni argomenti.
Poi mi sono sposato e ho iniziato una vita adulta, del tutto diversa da quella che avevano immaginato per me. Il pianoforte era in garage (che una volta si è anche allagato!). Ho continuato a scrivere, ascoltare e pensare alla musica senza però più praticarla.
E poi cosa è successo?
Ad un certo punto mi sono trovato in difficoltà. Vivevo a Pistoia, la ditta per la quale lavoravo andava male e stava per chiudere. Un sabato sera (avevo 24 anni, e il mio matrimonio era già finito) mi accorsi di non avere nemmeno i soldi per una birra, così entrai in un locale del centro, dove c’era un vecchio pianoforte verticale. Mi feci coraggio e dissi ai gestori: “Per una birra vi suono per tutta la notte”. Mi guardarono come se fossi stato un pazzo, ma mi permisero di farlo.
Sembra la sceneggiatura di un film…
Invece è proprio la realtà: è stata molto più di una birra, perché in pratica ho vissuto per un anno nel bar, dove mangiavo ogni giorno e dove piano piano iniziavo a guadagnare qualcosa. Stavo lì dalla mattina alla notte, e mi resi conto che la musica esercitava un’attrattiva forte sulle persone che passavano. Cominciarono ad entrare anche i musicisti, coi loro strumenti, così la loro musica si aggiunse alla mia, e tutta la strada ne fu come contagiata. Si formò una specie di nucleo musicale di presenze culturali diversissime; mi chiedevano di suonare insieme contrabbassisti, saxofonisti, altri pianisti…
Una specie di libera comunità di artisti?
Proprio così… un’esperienza bellissima, che tra l’altro mi permise di non dover tornare a Genova dai miei, che insistevano per occuparsi di me.
È stata la svolta
Per molti motivi: nel locale ho conosciuto Rebecca, l’amore della mia vita (e oggi mia moglie). Cominciammo a suonare insieme –lei è una cantante jazz- e per molti anni abbiamo fatto concerti; nel tempo si è consolidato un lavoro comune di ricerca musicale, che mi piacerebbe testimoniare con un disco.
Pace fatta con la musica, dunque
Più o meno… dopo cinque anni di inattività sentii il bisogno di confrontarmi di nuovo con un ambiente musicale importante e di rivedere aspetti più pragmatici e tecnici. Un riflesso condizionato mi spingeva ad investire maggiori risorse nella musica classica, ma avevo anche preso atto che il mio istinto mi portava dall’altra parte, come avevo fatto fin da piccolo.
Per questo ho frequentato per due anni le lezioni di un pianista di grande livello come Joaquín Achúcarro all’Accademia Chigiana, e anche i corsi di Siena Jazz, dove ho conosciuto Stefano Battaglia e Franco D’Andrea, due pianisti diversissimi che mi hanno dato stimoli decisivi: Battaglia soprattutto in relazione alla sua attitudine sperimentale nell’improvvisazione, D’Andrea per l’immensa esperienza di una leggenda musicale, che ha costruito il cinquantennio del jazz italiano, collaborando con artisti importantissimi e attraversando vari stili musicali.
E sei anche arrivato a Fiesole…
Mi sono iscritto ai corsi dell’Orchestra Giovanile Italiana, che ho frequentato per due anni, dal 2004 al 2006. Ho fatto grazie all’OGI esperienze fondamentali, sia orchestrali che cameristiche, suonando in tante occasioni programmi interessanti e stimolanti. Ricordo il ciclo al Museo Marini, con le serate bellissime di Musica e Cultura, grazie alle quali ho incontrato alcuni autori della musica di oggi, tra cui Adriano Guarnieri, Carlo Boccadoro, Luca Francesconi.
Ricordo anche un Kammerkonzert di Berg diretto da Guido Corti, con me e Volodya Kuzma solisti, ad Aosta. Suonavo tanta musica, di quella che amavo di più.
Grazie all’OGI fui invitato all’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI di Torino, dal direttore artistico Daniele Spini, che era stato fra i commissari ai nostri esami finali. Ne è nata una collaborazione felice, che mi ha permesso bellissime esperienze e che dura ancora. La Rai ha investito su di me, soprattutto per la musica americana, e mi sono tolto delle grosse soddisfazioni suonando molte cose di Bernstein, tra cui Facsimile, e poi Gershwin, Copland, musiche da film, un vastissimo repertorio contemporaneo e capisaldi del repertorio del ‘900 storico. Ho acquisito nuove competenze professionali, che mi hanno aperto le porte di altre compagini come l’Orchestra della Toscana e la Camerata Strumentale Pratese, dove vengo solitamente chiamato per cose da outsider.
Facendo senz’altro felici i responsabili, che faticano a trovare questo tipo di duttilità nei pianisti
Il ruolo del pianista in orchestra è ancora diverso da quello che ricopre nella musica da camera, e penso che sia un’esperienza importante, che dovrebbe far parte del percorso di studi. È proprio un altro modo di suonare.
Comunque da Fiesole non sei più andato via
Dopo l’OGI ho tenuto alcuni concerti con l’ensemble di musica contemporanea che faceva capo alla Giovanile ed era diretto da Renato Rivolta, nel quale continuavano a suonare ex allievi della Giovanile e della Galilei.
A Fiesole sono stato pianista accompagnatore di diverse classi, poi ho sostituito Giovanni Verona per il pianoforte complementare, prima di prendere la cattedra di pianoforte principale. Nel frattempo si era creato un buon rapporto con Andrea Portera, con la cui classe ho collaborato a lungo, e infine mi venne proposta la cattedra di Lettura della partitura, che ho tenuto per diversi anni..
Non te ne occupi più?
Non era più possibile per me, in termini di tempo: adesso il docente è Leonardo Pieri, un musicista completo e preparatissimo.
E poi?
Nel 2011 Andrea Lucchesini mi chiese di aprire, per la prima volta nella storia della Scuola, il corso di Tecniche d’improvvisazione, ancora in funzione. È stato provvidenziale: cominciammo con quattro allievi, senza pubblicità, ma questo ci ha permesso di essere pronti quando la materia è stata inserita nel piano di studi del triennio; adesso è facoltativa per tutti, ed obbligatoria nel corso di percussioni.
Avevo preparato anche un progetto per portare il jazz alla Scuola, ma era rimasto nel cassetto. Così quando ho ricevuto da Alain Meunier la proposta di occuparmi concretamente di un nuovo percorso jazz ho detto sì e iniziato a radunare una squadra.
Una bella responsabilità… come ti sei mosso?
Ho cercato l’eccellenza strumentale in ambito jazz toscano, pensando a semplificare i passaggi logistici. In Toscana ci sono musicisti di prim’ordine: non avevo suonato con tutti loro, ma li avevo magari incontrati nei festival.
Ho fatto infinite telefonate e molti incontri prima ancora di presentare il gruppo degli insegnanti alla Scuola. Quello che mi premeva prima di tutto era informare i nuovi docenti di quale fosse l’ambiente nel quale avrebbero operato, e anche di quale fosse l’intento di questa operazione.
Ovvero?
Ormai non mancano i contesti dove poter studiare il jazz, e non vorremmo replicare formule già esistenti. L’intento che anima questo progetto è culturale ed etico: sogno luoghi dove non ci siano più divisioni, ma si sappiano formare gli artisti e i docenti del futuro ad un’idea della musica come patrimonio culturale dell’umanità.
Il jazz è una delle tante componenti di questi ultimi due-tremila anni di storia, ma in una scuola prestigiosa come il Berklee College di Boston ci sono dipartimenti di musica classica, jazz, pop, rock, indiana… una varietà di proposte e di incastri che è elettrizzante. In un futuro vicino l’uomo non avrà solo l’opportunità di conoscere le altre culture, ma probabilmente si troverà nel pieno di una nuova megacultura originata dalla mescolanza delle popolazioni sul pianeta.
Come pensi che dovremmo prepararci a questo?
La mia speranza è che le discipline possano fondersi in un progetto didattico più ampio: mi piacerebbe che per i bambini il primo incontro fosse semplicemente con la musica, con la storia della musica, e penso sarebbe bello formare allievi con competenze trasversali almeno fino al triennio, e solo a quel punto far scegliere loro una specializzazione (classica, jazz, pop…).
Credo che potremmo contribuire a formare questo nuovo gruppo di artisti e docenti più aperti alle varie declinazioni della musica. Infine, oltre al valore culturale ed etico, dobbiamo ammettere che un musicista capace di integrarsi in culture musicali diverse avrà maggiori opportunità di lavoro.
Parliamo del Dipartimento jazz e della fantastica novità dell’accreditamento per il Triennio
Davvero una grande notizia! Il Dipartimento si è costituito ufficialmente da quest’anno e ne sono il coordinatore. Gli insegnanti sono al momento otto, e dall’anno prossimo avremo anche i corsi di chitarra e storia della musica. Gli allievi sono per il momento una ventina, ma sono certo che la possibilità di frequentare a Fiesole il triennio jazz sarà di grande attrattiva per il prossimo futuro.
In cosa differisce la nostra offerta, rispetto alle tante scuole cui accennavi?
Qui c’è un ambiente speciale, come tutti sappiamo, i ragazzi respirano un’aria cosmopolita e interculturale, e gli stimoli sono tantissimi.
Oltre ad investire sull’aspetto didattico, la Scuola offre anche ai giovani jazzisti un’esperienza performativa, così loro hanno la possibilità di riversare fuori quello che hanno imparato in classe.
Pochi giorni fa hanno suonato al Pinocchio Jazz. Com’è andata?
È stata una bellissima esperienza per tutti: i ragazzi hanno suonato bene, in un contesto prestigioso e con un buon pubblico.
Siamo anche stati ospiti del Festival Suoni Riflessi, protagonisti di una produzione teatrale dedicata al cinema insieme alla Compagnia Teatro del Sale e alla Fondazione Sistema Toscana, e faremo i concerti di apertura per la prossima Estate Fiesolana. Le occasioni non mancano davvero.
Oltre alla partecipazione attiva ai concerti, pensi che gli allievi riescano a cogliere le tante opportunità che la Scuola offre loro?
In realtà noto da tempo una certa difficoltà ad entrare nel contesto vivo della musica, ed è un peccato perché gli stimoli sono davvero tanti: non vale solo per il jazz, è un discorso più generale. Mi sembra che gli allievi non approfittino quanto potrebbero di tutte le possibilità di ascoltare e conoscere. Forse anche questo è un nostro compito: dobbiamo portarli alla musica, al teatro, insegnando loro ad essere più curiosi e interessati a ciò che avviene intorno a loro.
D’altra parte stando attenti si colgono opportunità inattese e si fanno incontri interessanti, che possono dare grande gioia: poche settimane fa c’è stato qui a Scuola un festival cornistico organizzato da Luca Benucci, Mediterraneo Horn Sound; tra gli ospiti c’era anche Giovanni Hoffer, che ho scoperto essere, oltre che un cornista classico, anche un jazzista di primissimo ordine. Abbiamo suonato insieme, con Andrea Melani alla batteria e Guido Zorn al contrabbasso, trovandoci direttamente il giorno del concerto. È stata un’opportunità fantastica, non solo per noi che abbiamo suonato con lui, ma anche per gli allievi cornisti, che scoprendo nuove potenzialità del loro strumento si sono accesi di entusiasmo… cose che succedono a Fiesole!
Un’ultima domanda personale. Leggo nella tua biografia che hai aggiunto al tuo il nome YekNur. Con quale intento?
È un nome spirituale, dal persiano yek (uno) nur (luce). Si riferisce a me, ma soprattutto all’idea che ho dell’uomo: tutti siamo portatori di luce e di progresso. Ognuno di noi manifesta questa singolarità luminosa, all’interno di un contesto fatto di contrasti ed anche di oscurità.
Suppongo che questo abbia a che fare con la ricerca spirituale di cui parlavi all’inizio
Esatto: circa 15 anni fa sono approdato alla religione bahá’í, l’ultima rivelata, in Persia alla metà dell’800. Parte dal presupposto che esista una sola religione, la religione di Dio, che si manifesta attraverso i profeti nel corso della storia dell’uomo, ed è contestualizzata in base alle necessità storiche dell’uomo stesso. Periodicamente Dio interviene nella storia, ed ogni religione è collegata alle altre dalla comunicazione che Dio stabilisce con gli uomini attraverso profeti come Zaratustra, Mosè, Buddha, Gesù, Maometto… Oggi siamo nel periodo della maturità, che implica un movimento verso l’unità del genere umano. Per la prima volta nella storia non si parla più di popoli, ma di umanità.
In questo contesto si chiarisce il concetto di religione come fenomeno relativo: essa è uno strumento dato all’uomo per promuoverne lo sviluppo.
Si tratta di una religione molto diffusa?
Geograficamente è la seconda religione del mondo (cioè è presente in ogni angolo del pianeta), ma i numeri sono piccoli.
Io frequento la comunità bahá’í di Pistoia: l’apice dei nostri incontri è la festa del 19° giorno: seguiamo infatti un calendario particolare, nel quale l’anno è composto da 19 mesi, ognuno dei quali ha la durata di 19 giorni. Con l’avvio del nuovo mese la comunità si riunisce, per leggere e meditare i testi e poi per ascoltare musica e mangiare insieme.
Com’è arrivata la religione bahá’í nella tua vita?
Sempre nel famoso locale del centro di Pistoia, e grazie a Rebecca, che mi confidò di essere bahá’í. Incuriosito come sempre dalle questioni spirituali, le chiesi di poter accedere alla sua libreria: dopo un anno, leggendo una preghiera di Bahá’u’lláh, il fondatore della religione bahá’í, capii che avevo accolto dentro di me questo credo.
E adesso, pensai, chi lo dice ai miei?